Due ruote, un uomo, una fetta di mondo
di
Ettore Marino
L’Italia è una non da molto, Umberto I regna ancora, Milano prende con timidezza a debordare oltre la cinta delle mura, e un ragazzetto s’infoca d’amore per il velocipede. Il ragazzetto è Eberardo Pavesi, nato a un tiro di schioppo da Milano nel Novembre del 1883. Pioniere del Ciclismo, vinse una Roma-Napoli-Roma, un Giro dell’Emilia, alcune tappe al Giro d’Italia e, con la compagine dell’Atala, il Giro stesso nel 1912, unico anno in cui la vittoria sia stata attribuita non già al singolo ma, appunto, alla squadra. Stabilì il primato nazionale dell’ora e fu il primo italiano a riuscire a portare a termine il proibitivo Tour de France. Ritiratosi dagli agoni, diverrà direttore sportivo ora della Bianchi ora della Legnano, scopritore certissimo di talenti, personale consigliere dell’organizzatore del Giro d’Italia. Per la dinamica generosa simpatica capacità affabulatoria, Pavesi sarà soprannominato l’avocatt. Gianni Brera gli fu grande amico. Conversavano a lungo, i due saputi figli di Lombardia. Nel 1952 Brera ne caverà un libro, L’avocatt in bicicletta, che dodici anni dopo vedrà nuova luce d’edizione col titolo, proposto da Mario Soldati e da Orio Vergani, di Addio, bicicletta. Brera morrà, per incidente d’auto, nel Dicembre del 1992. Pavesi si era spento nel Novembre del 1974. Noi, oggi, andremo un po’ sgroppando lungo i ghiaiosi sentieri di Addio, bicicletta.
Ghiaia infatti, e sentieri, e un canale pescoso e orti infestati di zanzare si schiudono oltre Porta Romana, là dove il padre di Eberardo ha aperto un forno. Curioso e vigile, il ragazzo patisce suggestione dalle scritte latine campeggianti sul frontone della Porta. Mai le comprenderà. Studia, e lavora con il padre. Il velocipede è roba da ricchi. Evolve presto in bicicletta. Eberardo riesce ad acquistarne una impegnando l’orologio. Le prime corse cui partecipa vengono organizzate da un iracondo e buffo venditor di gazzose. La fame è mostro vinto però non debellato, l’operosità innerva le ore e gli attimi; i vizi, quelli di sempre: vino, tabacco, prostitute. Ma Eberardo è sobrio. Ha una passione, e la coltiva. Il mondo del Ciclismo prende a organizzarsi, la stampa sportiva cesella i primi suoi eroi. Eroico è per Pavesi trionfare nella Roma-Napoli-Roma. Vede altre cose, accenti nuovi gli giungono all’orecchio. Roma è altera e distante, plaudente e calorosa è Napoli, benché il cielo incupisca, e tuoni pioggia e fulmini riempiano l’aria di sé e i petti di paura. A Eberardo che vince, la Città eterna si disvela “d’un soffuso color rosa sui colli, d’un tenue violetto in piano”. Tornerà a vincere, il Pavesi. Conoscerà sconfitte che lo rafforzeranno nella saggezza ereditata con la nascita.
Bisogna però andare in Francia. Là il Ciclismo ha una più intensa nobiltà: più aspra e più elegante insieme; più consapevole di sé. I nostri sono ingenui. Luigi Ganna divora, con tutta la buccia, due o tre di quelle che gli erano parse zucchine di varietà ignota. Scoprirà poi che si chiamano banane. Le scritte in francese suggestionano; deludono appena tradotte. Solo Pavesi conclude la corsa. A Milano lo attendono la banda musicale e le più alte autorità.
Il silenzio e il sorriso d’una giovane sposa sono il solo ricordo che casto affiori da un Giro di Sicilia. Pavesi ha rotto il telaio. È solo. Si dispera. Alta sul proprio mulo, compare l’ammantellata sintesi di un brigante nostrano e di un predone d’Arabia. Offre aiuto. Conduce il giovane a casa, dispone che la moglie gli porga cibo e bevande, e si allontana col telaio. Seduto sulla soglia dell’abituro, Eberardo sorseggia marsala tra un boccone e l’altro di buona cacciagione. L’uomo ritorna. Ha fatto riparare il guasto da un meccanico amico. Pavesi può rimontare in sella. Ringrazia con calore. La donna, sempre tacita, gli sorride per l’ultima volta.
Un mondo intero si muove e palpita nel libro. Atleti organizzatori giornalisti meccanici medici, diseredati in cerca di riscatto, popolani in ansia di ricchezze, snob che passano obliqui lungo il diorama delle cose, padri sempre meno scontenti della strana passione dei figli diventata mestiere e fonte di benessere, spose cui tornerebbe grato di avere al fianco un uomo che si dedichi a un lavoro più placido e più certo di quel perenne e faticoso scorrazzare, fazioni di tifosi, tipi arguti e balzani, sobri uomini d’affari… Brera ha lasciato da subito che Pavesi parlasse in prima persona, sì da offrirci un’autobiografia scritta da un altro. Senti odori, sapori, polverose secchezze di strade, piogge che impastano la terra e l’anima. Ti abbandoni alla pagina, e tuo si fa il senso di morte che scende in gola al corridore in preda al freddo e alla fame sulla costa d’un monte di cui ignora il nome; ti abbandoni alla pagina, e cola per le stesse tue membra la grazia della vita che torna per virtù d’una rustica zuppa, di acqua calda, di vino offerti all’atleta da un contadino il cui nome resterà ignoto per sempre. Vedi ciò che fu visto, senti ciò che fu sentito. Rapido è il ritmo, sapida la lingua. Lombardismi disciolti nel flusso dell’italiano, dialoghi in dialetto, o in francese. Nulla è casuale, e tutto è come se lo fosse.
Gli anni passano. Milano arricchisce, erompe oltre le mura, il contado diventa città. I grandi di domani prendono a incidere sul marmo il proprio nome: l’ingenuo Belloni, l’astuto Girardengo, il cupo Henri Pélissier. Pavesi resta vedovo al primo parto della moglie. Torna a sposarsi. C’è la guerra. C’è la spagnola. Ultima corsa, nel 1919, a Napoli, dove gli vogliono un gran bene. Pavesi annuncia il proprio ritiro guardando “il mare, placido sotto la luna, le luci dei pescatori, tremolanti lontano”. Sente le lacrime montargli irrefrenate, e pudore gli impone di fingere di raccattare il tovagliolo sotto la tavola. Torna a Milano. Appende la bicicletta al chiodo.