23 Dicembre 2024
Arbëria

“Se la sposa è un fiore d’aprile”, il matrimonio spezzanese nel fumetto di Janù

di

Mario Gaudio

Il genere del fumetto è di per sé fluido, di difficile inquadratura, sfuggente alle osservazioni del critico al pari dell’antico dio Proteo che, secondo tradizione, mutava inaspettatamente forma per sottrarsi a coloro che ne ricercavano il vaticinio.

Sulla scorta di questa oggettiva difficoltà, Iannuzzi si interroga sulla definizione della sua opera, proponendo tutta una serie di ipotesi convincenti ma parziali, e arrivando − quasi con rassegnazione − a condensare il senso del suo lavoro nell’immagine di «una semplice storia d’amore a lieto fine».

Senza presuntuose aspirazioni interpretative, cercheremo di oltrepassare questa definizione fornendo qualche chiave di lettura ulteriore, capace di completare un quadro grafico-narrativo sicuramente complesso.

Se la sposa è un fiore d’aprile prende il nome da un verso di un vecchio canto popolare e racchiude in sé una storia che, come tale, non può sfuggire alle ineluttabili catene del tempo e dello spazio: la vicenda si sviluppa, in effetti, negli anni Trenta del Novecento nel piccolo e accogliente borgo di Spezzano Albanese, terra natia dell’autore.

I personaggi principali dei fatti narrati sono Antonio ed Elena, rispettivamente padre e madre di Janù, ma un’analisi minuziosa fa emergere la presenza di un altro imponente protagonista: la gjitonia (il vicinato, per intenderci), vero cuore pulsante e possente motore di questa sequenza narrativa.

Sebbene sia presente un forte protagonismo corale, di matrice marcatamente popolare, la tematica centrale resta quella dell’amore tra due figure differenti per estrazione sociale e per origine (Antonio proveniente da una famiglia arbëreshe orgogliosamente legata alle tradizioni ed Elena, al contrario, di rito latino e residente nella limitrofa San Lorenzo del Vallo).  Tuttavia, come da consuetudine letteraria, gli ostacoli vengono surclassati dalla sincerità delle emozioni e dalla caparbietà dei personaggi, consentendo la celebrazione delle tanto agognate nozze.

Il matrimonio campeggia come evento centrale della narrativa di Iannuzzi che, in tal modo, focalizza la sua attenzione su uno degli eventi cardine della società contadina spezzanese di inizio Novecento e colma di significato quella serie di riti, tradizioni, formule e simboli che connota l’unione sponsale nel variegato mondo arbëresh.

Ecco affacciarsi, dunque, tra le pagine del fumetto, lo spirito, semplice e vigoroso allo stesso tempo, di uomini e donne legati alla terra e alla saggezza agreste che formulano i loro canti augurali nei confronti degli sposi auspicando raccolti abbondanti e floride vendemmie.

Con fare volutamente antistorico, Janù colloca in pieno Novecento riti e tradizioni prettamente bizantine: gli sponsali sono celebrati da un papàs, figura emblematica della religiosità di origine orientale, esempio di sacerdote e marito per cui, come scriveva Nicola Misasi, «[…] la religione non  comincia […] da Dio per finire a Dio, ma sale dalla famiglia al cielo e amalgama in un solo culto l’amore per la creatura e l’adorazione per il creatore»; seguono il triplice scambio delle corone di fiori sul capo degli sposi, da parte dei testimoni – segno della grazia e dell’esigenza di comunione tra i coniugi −, la rottura augurale del bicchiere nel quale i nubendi hanno bevuto – rituale che richiama l’episodio evangelico del banchetto delle nozze di Cana – e, infine, il triplice giro attorno all’altare, simbolo di “gioia ed esultanza” per la felice occasione.

Prende corpo, pertanto, nelle pagine dell’opera, quella triade costituita da lingua arbëreshe, tradizioni e rito bizantino di cui la nostra Spezzano è stata gradualmente menomata: in passato con la soppressione violenta del rito greco − avvenuta definitivamente nel 1668 −, l’imposizione del rito latino per meri motivi politico-economici e il conseguente e oggettivo impoverimento spirituale e identitario; nel presente con la riduzione drastica, soprattutto tra le giovani generazioni, del numero di parlanti l’antica lingua arbëreshe.

Il potere della parola e la suggestione delle immagini riportano in vita le ancestrali usanze di un popolo fiero e solidale. Fanno capolino nel testo di Iannuzzi la bambola quaresimale nota con il nome di Kreshmeza, la straordinaria bellezza delle danze popolari (le valle) e i suggestivi colori degli abiti llambadhor, preziosi quanto vistosi indumenti di gala indossati dalle donne della nostra terra.

Tuttavia, non manca una sottile e penetrante venatura malinconica che trova espressione nel commosso accenno ai numerosi spezzanesi morti eroicamente sui diversi fronti del primo conflitto mondiale. A ciò si aggiunge anche la presenza del tema dell’emigrazione, particolarmente sentito dal nostro autore che, in tenera età, è stato costretto ad abbandonare il proprio borgo natio.

La tematica migratoria pesa sulla narrazione attraverso due figure caratterizzate da una ossimorica presenza-assenza: il padre dello sposo − che si ammala sul piroscafo che lo sta riportando in Italia e, una volta giunto a Spezzano, rende l’anima a Dio − e il padre di Elena, che vive per necessità in Argentina e, a causa dell’enorme distanza, non riesce a partecipare neppure alle nozze della sua adorata figlia.

La nostalgia si affaccia con prepotenza tra le vicende narrate e ricorda al lettore le difficoltà di vita dei propri avi, richiamando a gran voce quello spirito di sacrificio che la nostra società, tecnocratica e superficiale, sta gradatamente dimenticando.

I canti tradizionali accompagnano i vari momenti di vita e di lavoro descritti e graficamente rappresentati nell’opera di Iannuzzi, evidenziando uno spirito di comunione che, attraverso il canto, rinsalda l’identità e alleggerisce gli animi dinanzi alla fatica quotidiana.

Il quadro che affiora dal fumetto è quello di una società travagliata, ma unita, carica di speranza nonostante le difficoltà, capace di assaporare i momenti e di comprendere l’inestimabile preziosità del tempo vissuto nella concordia e nell’operosità. Un ritratto ben lontano dal “liquido” postmodernismo, ma capace di insegnare ancora grandi e durevoli valori.

Iannuzzi gioca con la memoria, riconoscendo in essa un valido rimedio contro lo scriteriato fluire delle mode, in una visione in cui la cronaca diventa Storia e questa, a sua volta, fecondata dalla tradizione, diventa poesia.

Ritornando al quesito iniziale circa la possibilità di dare una definizione al fumetto di Janù, stando a quanto detto, possiamo circoscrivere l’opera adottando almeno tre immagini: il dono, lo scrigno e il prisma: il dono riconoscente dell’emigrante verso la sua terra d’origine, nel tentativo di riscoprire le proprie radici e i suoni con cui da bambino articolò le prime parole; lo scrigno della memoria che racchiude le preziose perle della tradizione, patrimonio inestimabile per chi vi si accosta con curiosità e spirito di conoscenza; il prisma dell’arte che è capace di scomporre la bianca luce della Storia nella policromia della narrazione, delle immagini e dei sentimenti.

Ernest Koliqi, nei suoi rinomati Saggi di letteratura albanese, descrisse Skanderbeg come «[…] il creatore di un’idea di fratellanza, colui che aveva acceso un sacro fuoco nel grande focolare della stirpe, che aveva insegnato alla gente legata dallo stesso sangue e dalla stessa lingua a considerarsi figli della stessa madre», Iannuzzi, attraverso il suo fumetto, con l’armonica fusione tra immagini e parole, ricorda a tutti noi l’importanza delle radici e del passato, unico ed efficace antidoto contro la narcosi delle coscienze e la negazione del bello, unico argine contro la disgregazione delle identità e il disinteresse generale.

Il compianto filosofo francese Paul Ricoeur scrisse: «[…] La memoria è tutto ciò che abbiamo per assicurarci che qualcosa è effettivamente accaduto un tempo». È esattamente questo lo spirito che impregna il gradevolissimo lavoro di Iannuzzi.