Note su un poema incompiuto di Antonio Argondizza
di
Mario Gaudio
Antonio Argondizza (San Giorgio Albanese 1839-1918) vanta una produzione letteraria tanto ampia quanto disorganica.
La sua solida formazione umanistica ‒ maturata a San Demetrio Corone presso il noto Collegio di Sant’Adriano ‒ si frange e si sparge in numerose operette spesso affidate a semplici fogli spiegazzati o a disordinate pubblicazioni che, oltre ad aver ingiustamente sminuito il valore dell’autore, hanno reso estremamente difficoltoso il lavoro di collazione degli scritti.
Tutto ciò trova fondamento in un animo travagliato, perennemente polemico, incapace di trovar requie persino dinanzi alle innumerevoli miglia percorse durante avventurosi viaggi in Spagna, Francia, Albania e Montenegro.
Argondizza, sacerdote di rito bizantino, profondo conoscitore della lingua albanese e acerrimo nemico del socialismo e della massoneria, compone ‒ in una data sicuramente antecedente al 1897, dal momento che egli stesso ne fa cenno nella quarta di copertina del saggio Volere è potere risalente proprio a questo periodo ‒ il primo canto di un poemetto incompiuto intitolato La massoneide, i cui 353 versi iniziali furono rinvenuti anni addietro dallo studioso Giovanni Laviola.
L’opera, sebbene non portata a conclusione per motivi che, ovviamente, non possono essere determinati, presenta spunti interessanti e ci consente di comprendere con chiarezza alcuni aspetti dello spirito marcatamente conservatore del suo autore.
L’invocazione iniziale è rivolta a Cristo ‒ «O Figlio di Colui, che spazio e tempo / di Se, misticamente, empie e ricolma» (vv. 1-2) ‒, affinché ispiri un efficace verbo «che sia veneno all’aspide insidiosa» (v. 6).
Segue la protasi che racchiude brevemente l’argomento del poema identificandolo con la diffusione di una demonizzata massoneria in Italia in generale e a Roma in particolare: «Il santo loco, / che fu da Te più prediletto, dove / piantasti il seggio del tuo Regno in terra, / che il sangue dei Tuoi Martiri divino / innaffiò, profumò, sede si elesse / l’Oste infernale» (vv. 10-15).
Qualche verso dopo è presentato il protagonista: si tratta di Ernesto, un giovane «ch’entrava baldanzoso al quinto lustro» (v. 31), che se ne sta seduto nello scompartimento di seconda classe di un rumoroso treno diretto a Parigi.
Mentre la locomotiva ‒ «mostro dai piè di ferro e sen di foco» (v. 80) ‒ viaggia a velocità sempre più sostenuta, il paesaggio scorre dai finestrini in tutta la sua varietà, diventando quasi metafora dell’esistenza umana: «Di nostra vita immagine fedele / così varia di scene or tristi, or gaie / pel passeggier, che guata, ammira e passa, / e lascia ad altri il rivederle» (vv. 41-44).
Durante le varie soste, si consumano momenti di caotica indifferenza che, quantunque descritti da un autore ottocentesco, appaiono di un realismo e di una modernità impressionanti, capaci di cristallizzare nel verso poetico ciò che accade quotidianamente nelle stazioni ferroviarie e negli scali altrettanto affollati delle nostre anime: «[…] e chi discende / e chi sale, solleciti, affannati, / si scontran, s’urtan, muti, indifferenti, / quasi estrani di sangue e di favella, / e di Patria e di Fede» (vv. 84-88).
Ernesto, nel frattempo, ripensa tra le lacrime al distacco dalla madre e dalla sorella Elvira e pregusta i «[…] novelli studi, / che l’aspetta lassù, sopra le sponde / fiorite della Senna» (vv. 110-112) ma, ad un tratto, l’incantesimo si rompe e «sogni di gloria, d’oro e di dominio / gl’ingombrano la mente affascinata» (vv. 114-115).
Argondizza ‒ forse rievocando il ricordo del Collegio di Sant’Adriano che aveva covato per anni spiriti rivoluzionari formando patrioti e massoni, tanto da essere definito dallo sprezzante Ferdinando II di Borbone «una fucina di diavoli» ‒ attribuisce la causa delle ambizioni del giovane Ernesto ai maestri del Ginnasio che, «falsi sofi» (v. 137) «d’anime svenatori» (v. 141), agiscono tanto più subdolamente «del masnadier, che, truce, la sua vita / contro la vita altrui mette in periglio» (vv. 142-143) dacché, incolumi e pagati per le loro funzioni, allontanano dai valori gli studenti affidati corrompendoli con il veleno del libero pensiero: «L’anima trucidate all’infelice, / che a voi s’affida, e che da voi s’aspetta / della sapienza la bevanda e il pane. / Voi strappate dal cor dell’innocenza / l’immagine di Dio, sostegno e vita / dell’umana natura… ed in sua vece / sostituite Satana, ed il nulla!» (vv. 145-151).
Il protagonista continua ad essere impegnato nelle sue meditazioni sulla ricchezza ‒ «È l’oro il solo dio! Il dio che infiora / d’ogni felicità la vita umana» (vv. 199-200) ‒ e sul potere ‒ «[…] l’imperio / è la legge del forte, ed ogni forza / viene dal biondo dio, ch’oro si appella» (vv. 204-206) ‒ da esercitare sul «pecorume di popolo» (v. 204) ricercando costantemente la soddisfazione dei bisogni terreni ‒ «[…] Quale pro germoglia / all’estinto la gloria? La carogna, / che pute verminosa, avverte forse / la voluttà, che dalla gloria nasce?» (vv. 208-211) ‒ a discapito di ogni esaltazione della virtù e del concetto di esistenza oltremondana («Fantasma è la virtù, fantasma inane, / che impera agl’intelletti ottusi e scuri / col gran fantasma di futura vita. / Vita, che sopravvivi oltre la tomba!… / Che melensa promessa!», vv. 215-219).
Improvvisamente appare nel vagone un nuovo personaggio: un uomo dall’aspetto misterioso e inquietante il cui ingresso è accompagnato da una serie di strani segni («Il cigolio delle freganti rote / parea lamento d’anima morente; / l’aere gemeva in tono rauco e strano, / e il tubo della macchina sbruffava / il fumo al ciel, come minaccia», vv. 245-249).
Lo sconosciuto tenta Ernesto con strani discorsi inducendolo ad offrire culto all’essere infernale. Tuttavia, il giovane, colto da terrore per l’improvvisa sparizione dell’oscuro passeggero, invoca la Madonna e salta giù dal treno appena giunto a destinazione.
Qui il poemetto di Argondizza si interrompe bruscamente, non consentendoci di formulare una oggettiva valutazione di merito. Ciononostante, la gradevole architettura poetica e la presenza di reminiscenze dantesche, di riferimenti all’Inno a Satana del Carducci e alla canzone All’Italia di Leopardi ci inducono a riflettere sul carattere di un’opera che, se portata a termine, sarebbe stata di indiscusso valore.
Insomma, nonostante la frammentarietà della sua produzione, emerge con chiarezza la necessità di una riscoperta e dell’approfondimento di un autore sicuramente non secondario nel variegato panorama d’Arbëria.