Vagabondando in un epistolario
di
Ettore Marino
Come pochi, e con rabbiosa inconcussa certezza, Gustave Flaubert sapeva che l’Arte è un altro mondo. Non è la Verità. Non è la Vita. Deve perciò giustificarsi da sé sola. Sognò un libro sur rien (“su nulla”), privo di ogni ancoraggio, bello soltanto del suo stile. Mai lo tentò. Tenne degno di stampa soltanto ciò che scrisse da Madame Bovary in poi, e cioè quattro romanzi, compreso l’incompiuto Bouvard et Pécuchet, tre racconti, un poema in prosa, tre pièces teatrali. Postuma conoscerà la stampa l’opera giovanile. Postuma, è ovvio, la sterminata Correspondance. Il padiglione in cui scriveva fu il luogo del supplizio. Le frasi, ebbe a un di presso a dire, erano avventure. La solitudine, un’amica fedele. Una donna tentò, per amore, di violare il sacrario: Louise Colet. La amò pur egli, ma le vietò di varcarne la soglia. La vita suppurava oltre le sbarre dei cancelli, nei suoi nervi visitati dall’epilessia, nel suo corpo d’atleta nel quale la sifilide aveva deposto spore e piaghe, mentre la Senna andava, a un passo dalle sue finestre, illuminate a notte, faro fraterno ai battellieri. Sacrificare sé a chi amava davvero (madre amici nipote) e tutto al libro, lo scopo prefisso. Da qui, la sua leggenda. Cuore tenero, sognò immensità e lontananze; disgustato del mondo, notomizzò e disseccò sulla pagina esistenze destini velleità. Velleità e inanità segnano sempre il loro trionfo, pallido o sanguigno. Il sognatore e l’uomo di intelletto, due reami dell’uomo Flaubert. A colori (fu Alberto Savinio a notarlo) è il Flaubert di Salammbô, della Tentazione di sant’Antonio, di Erodiade, de La leggenda di san Giuliano ospitaliere; in bianco e nero quello della Bovary, de L’Educazione sentimentale, di Un cuore semplice, di Bouvard et Pécuchet. Statuì un rigidissimo canone d’impersonalità, e vi si attenne. Sulla pagina d’arte, Monsieur Flaubert, omaccione normanno, calvo e crinito insieme, dai biondi e poi grigi baffoni spioventi, si sente sempre e mai lo vedi. S’accampa invece tutto nella scrittura epistolare: tenero, sospiroso, anelante all’immenso, fragile, generoso, egoista, sonoro, frastornante, leale, disgustato, iracondo, dagli appetiti giganteschi: cibo vino nuoto viaggi tabacco puttane… Contingenza e destinatario marcano una differenza di statuto tra l’epistola e l’opera che si pretende d’arte – arte l’epistola stessa, quando lo è, se lo è, per quanto arte significhi. Nelle epistole sue, Flaubert è maestro comunque: di parola di frase di ritmo; soltanto, ci fu rottura d’argine, e il magma deborda, pur se rappreso e dominato. Lo spazio è poco.
Coglieremo qua e là qualche petalo riportando destinatari e date soltanto se occorre, e traducendo per come ci riesce. Per lui la pipa “va agguantata”, e quando in un trasloco gliene smarriscono una, rimpiange quella “leggiadra canna nera portata da Costantinopoli nella quale ho fumato per sette anni. Ho trascorso con lei le ore più belle della mia vita. Spaventoso tormento saperla perduta, profanata!” A Esneh, in Egitto, copula con la famosa cortigiana Kuchuk-Hanem: “Cinque scopate e tre pompini. […] Ripensavo alle notti nei bordelli di Parigi, ricordi antichi risalivano a mucchi. […] Alle tre mi levai per andare a pisciare per strada. Le stelle brillavano. Chiaro e altissimo il cielo.” Ciò scriveva all’amico Bouilhet, rimasto in Francia, il 13 Marzo del 1850. Lo prende nostalgia di casa, del terrazzo, dei tigli, delle primule che vanno a spuntare, e consola la madre scrivendole (15 Aprile 1850): “Tu forse adesso piangi, volgendo i poveri occhi che amo lungo un foglio che per te rappresenta soltanto lo spazio vuoto in cui tuo figlio si è smarrito. Oh no, va’ là, ritornerò!” A Louise Colet seppe inviare perle quali: “La pioggia cade, nere sono le vele delle barche oltre le mie finestre, passano contadine col parapioggia, i battellieri urlano, io mi annoio! Mi paiono scorsi dieci anni dacché ti ho lasciata. La mia esistenza, acquitrinio che dorme, è placida al punto che il minimo evento che vi cada cagiona cerchi innumeri, e occorre tempo prima che fondo e superficie ritornino sereni! I ricordi che qui incontro a ogni passo paiono ciottoli che rotolano, lungo una china dolce, verso un abisso d’amarezza che porto in me. Il limo è smosso, e tutte le specie di malinconia, simili a rospi interrotti nel sonno, levano il capo fuor d’acqua e danno vita a una musica strana; io ascolto. Ah, come, come son vecchio, povera cara Louise!”; oppure: “Tu mi hai amato molto, povera cara donna, e adesso mi ammiri tanto e m’ami ancora. Grazie di tutto ciò. Mi hai dato più di quanto io t’abbia dato, giacché ciò che vi è di più alto nell’anima, è l’entusiasmo ch’essa effonde.”; o ancora… Passiamo però ad altro! Bourgeois dalla punta dei baffi alle cartilagini dell’anima, e spregiatore dei bourgeois, opulenti o cenciosi che fossero, in quanto sordi al Bello, le contingenze politiche lo esasperano, sicché borbonici, orleanisti, repubblicani, bonapartisti, socialisti, beccano ognuno, di volta in volta, la sua zampata ràbida; a guida dell’umanità auspicava un governo di saggi, di “mandarini” – ingenuissima idea da bambinone un po’ viziato. Chiama la Francia grassa stupida e inetta, ma reagisce da fiero francese quando il Prussiano la vìola. Salvare sé e il suo mondo dalla profanazione… Ma la Vita t’invade; è invasione, la Vita: è contagio. Eterna e mediocre, arriva a minacciare la pagina stessa, o addirittura a sporcarla: “Al solo pensiero che Lévy [un suo editore] mette le zampe sulle pagine mie, mi sento rivoltare.”; ovvero: “Il manoscritto andava respinto: non ci si doveva cacare sopra!”; oppure: “Strano è il piacere che gli imbecilli provano a sguazzare nell’opera altrui: a tagliare, a correggere, a far da istitutore.”; o ancora… Ma chiudiamo così, lasciando che la Vita vada a spargere altrove le sue mortifere muffe.