23 Dicembre 2024
Letteratura

Il sapiente e la città: Ippocrate, Democrito e la follia

di

Mario Gaudio

La lettura delle Lettere sulla follia di Democrito, egregiamente curate da Amneris Roselli, ci restituisce un quadro confortante su quello che fu ‒ e, ahimè, non è più, ma potrebbe e dovrebbe tornare ad essere ‒ il rapporto fecondo tra l’intellettuale e il suo ambiente.

È evidente che lo scritto, databile con buona approssimazione al I secolo a. C., è figlio di tempi remoti e solidali in cui le città amavano i loro sapienti e ne erano riamate, ma è altrettanto palese il fatto che la problematica di fondo sia di estrema attualità in relazione alla nostra società consumistica ed ipertecnocratica, ma fondamentalmente regredita in termini di valori culturali e di tutela delle arti e dei loro rispettivi rappresentanti.

Se a ciò si aggiungono il dilagante disinteresse da parte delle giovani generazioni, la riduzione ai minimi termini della gloriosa attività della critica militante, l’utilizzo improprio da parte della politica di manifestazioni culturali ‒ colpevolmente degradate e volutamente ridotte a mera vetrina autoreferenziale ‒ e, non ultime, le dolorose quanto necessarie restrizioni imposte dall’epidemia di Covid-19, lo scenario che ne affiora è oggettivamente catastrofico.

Lungi dal voler alimentare polemiche e a debita distanza dalle querule quanto sterili geremiadi dei presunti intellettuali da tastiera, la presente recensione si condensa in un invito lapidario e pressante: tornare a leggere e ad attualizzare i classici della letteratura e della filosofia.

L’insegnamento ultimo delle Lettere consiste proprio nella costruzione di una visione del mondo alternativa basata sulla presa di coscienza delle contraddizioni dell’essere umano.

L’epistolario di Ippocrate può essere idealmente suddiviso in tre sezioni razionalmente legate dal fil rouge della costante attenzione nei confronti dell’Uomo e dalla volontà di comprenderne sino in fondo la natura.

Nella prima parte (Epistole 1-9) è raccontato l’antefatto che proietta una luce chiarificatrice sulla figura di Ippocrate e sul rapporto con i suoi concittadini di Cos.

Il re persiano Artaserse, il cui esercito è flagellato da una mortale e misteriosa epidemia,[1] chiede, promettendo in cambio immense ricchezze, l’intervento del medico greco che, preceduto dalla fama e da una presunta discendenza divina che lo collegherebbe addirittura ad Asclepio,[2] non fa tuttavia tardare il suo diniego giustificandosi col rispondere: «[…] non mi è lecito godere delle ricchezze dei Persiani né porre fine alle malattie di barbari che sono nemici dei Greci».[3]

Alla minaccia del sovrano straniero, i Coi rispondono coraggiosamente che «[…] non consegneranno Ippocrate, neppure se dovessero morire della morte peggiore»,[4] facendo affiorare un leale e profondo attaccamento verso il loro illustre conterraneo.

Nella seconda parte (Epistole 10-21) si dà spazio alla preoccupazione di un’altra città, Abdera, il cui saggio, Democrito, si è ammalato «[…] per il troppo sapere che lo possiede»[5] al punto da essere considerato vittima di una follia che si manifesta con l’isolamento e una costante e scriteriata risata.[6]

Ancora una volta viene chiesto aiuto ad Ippocrate che, quasi commosso dalle concitate suppliche degli Abderiti e confortato da un presagio positivo ricevuto in sogno,[7] cede all’invito recandosi a far visita al sapiente filosofo.

Nell’epistola 17 è descritto con palpitante e pittorico realismo il momento dell’incontro tra i due intellettuali: «Democrito sedeva sotto un platano basso e dalla grande chioma; vestiva una tunica spessa, da solo, scalzo era seduto su di un sedile di pietra, pallido ed emaciato, con la barba lunga. Vicino a lui, alla sua destra, cantava tranquillo un piccolo rivo d’acqua che scendeva lungo il pendio della collina. Sulla collina c’era un santuario, a quel che si poteva arguire dedicato alle Ninfe, ricoperto di vite selvatica. Egli, in atteggiamento di grande compostezza, teneva un libro sulle ginocchia mentre altri erano sparsi a terra attorno a lui; c’erano anche ammucchiati molti animali che erano stati completamente sezionati. Egli ora si piegava concentrato nella scrittura, ora restava a lungo immobile pensando e riflettendo tra sé; poi dopo un po’ si alzava, si aggirava osservando le viscere degli animali, le riponeva e tornava a sedersi».[8]

Il presagio favorevole, la placidità del locus amoenus e il lucidissimo ragionamento democriteo, che giustifica il riso come risultato della riflessione sulla banalità degli affanni dell’Uomo,[9] trasformano Ippocrate costringendolo a smettere i panni del medico-guaritore per indossare quelli del guarito.

Non c’è più dubbio alcuno sulla sanità mentale del sapiente abderita e sulla incomprensione ‒ benché giustificata dalla buona fede e mitigata dal profondo affetto ‒ dei suoi concittadini.

Nella terza ed ultima sezione (Epistole 22-24) sono contenute una sintesi delle conoscenze mediche dell’antichità ‒ con particolare riferimento alle varie sedi anatomiche umane ‒ e una serie di consigli per condurre un regime di vita salutare.

L’impianto dell’intera opera si basa, come accennato in precedenza, sulla attenta analisi delle contraddizioni dell’esistenza e sul loro necessario superamento.

Tuttavia, al di là delle questioni prettamente filosofiche, l’epistolario di Ippocrate veicola a gran voce l’urgenza di ristabilire legami ed equilibri tra la figura del sapiente e la comunità di appartenenza, così come il riso democriteo, assolutamente privo di forza sovversiva o spirito carnevalesco come vorrebbe erroneamente Bachtin,[10] ha come palese obiettivo quello di superare banalità e radicate ipocrisie per un ritorno all’essenziale che, di conseguenza, indurrebbe a riscrivere in chiave positiva i rapporti sociali.

Possano questi antichi e savi auspici guidarci nella costruzione delle relazioni post-Covid!

[1] «Senza combattere veniamo vinti, il nostro nemico è una fiera che fa scempio delle greggi; molti ne ha feriti ed è difficile curarli; scaglia su di noi amare frecce su frecce» (Epistola 1).

[2] Divinità protettrice dell’arte medica.

[3] Epistola 5a.

[4] Epistola 9.

[5] Epistola 10.

[6] «Dimentico di tutto, e in primo luogo di se stesso, veglia giorno e notte ridendo di tutto, delle piccole cose e delle grandi, e pensa che la vita non sia nulla» (Epistola 10).

[7] Nell’Epistola 15 si descrive la visione onirica nella quale Asclepio, accompagnato da serpenti («rettili enormi […] che incalzavano con grandi sibili») e da un seguito di personaggi che recavano «ceste di farmaci ben chiuse», rassicura il suo discendente con tali parole: «In questa circostanza non hai nessun bisogno di me, ma ora questa dea [la Verità, n.d.a.], comune agli immortali e ai mortali, ti guiderà».

[8] Epistola 17.

[9] Democrito spiega le motivazioni del proprio riso in questi termini: «Ma io rido solo dell’uomo, pieno di stoltezza, vuoto di azioni rette, infantile in tutte le sue aspirazioni, che dura le peggiori fatiche per non ricavarne alcun vantaggio, che con i suoi desideri smisurati percorre la terra fino ai suoi confini e penetra nelle sue immense cavità, fonde l’argento e l’oro e non smette di accumularne, si affanna ad avere sempre di più per essere sempre più piccolo. Non si vergogna di essere ritenuto felice perché scava le profondità della terra con le mani di uomini incatenati: di essi alcuni muoiono sotto crolli di terra, altri, in lunghissima servitù, vivono in quella prigione come nella loro patria; cercano argento e oro, frugando tra polvere e detriti, spostano mucchi di sabbia, aprono le vene della terra per arricchirsi, fanno a pezzi la madre terra. Ed è un’unica terra, quella stessa che percorrono pieni di ammirazione! C’è davvero da ridere; amano la terra nascosta, che affatica, ed oltraggiano quella che possono vedere! Alcuni comprano cani, altri cavalli, altri, ponendo i confini, segnano come loro un grande territorio e mentre vogliono essere padroni di molta terra non lo sono neppure di se stessi» (Epistola 17).

[10] Cfr. in proposito Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino, 2001 (1979).