“Polveri dalla quarantena”: spunti per la rinascita
di
Mario Gaudio
Per buona pace degli attuali complottisti, negazionisti e simili ‒ parenti stretti, ma decisamente più poveri e ottusi del don Ferrante di manzoniana memoria ‒, i cui comportamenti meriterebbero una speciale attenzione della psicologia clinica piuttosto che della critica letteraria, il famigerato Covid-19 esiste ed ha, sin dagli inizi, cambiato in maniera radicale le nostre vite.
Sebbene l’umanità abbia da sempre convissuto con ondate epidemiche di vario genere ‒ peste, colera, influenza “spagnola” ‒ rimanendone marcatamente plasmata e traendone i giusti insegnamenti per un necessario e continuo miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie nel corso dei secoli, la pandemia del nuovo millennio ci ha riportati alla realtà, costringendoci a riflettere sulla fragilità del nostro essere e permettendoci di avere una visione più chiara del prossimo futuro.
Ripensando, a più di un anno di distanza, ai primi giorni dell’epidemia, la principale immagine che mi si palesa è quella dei quotidiani bollettini della Protezione Civile che scandivano, con la precisione e il distacco che solo la matematica è in grado di assicurare, il numero esatto dei contagiati e delle vittime. A quelle cifre ‒ chissà per quale strano meccanismo associativo ‒ la mia mente di irrequieto e incallito lettore accosta, forse con un malcelato briciolo di paura, alcune incisive parole della Saison en Enfer (1873) di Arthur Rimbaud: «Ma santé fut menacée. La terreur venait. Je tombais dans des sommeils de plusieurs jours, et, levé, je continuais les rêves les plus tristes. J’étais mûr pour le trépas, et par une route de dangers ma faiblesse me menait aux confins du monde […]».[1]
Il tributo di vite umane falciate dal virus è stato elevatissimo e l’atto stesso del riflettervi, benché non aiuti a stemperare il dolore ‒ ben faceva Marguerite Yourcenar a ricordarci ne Les Mémoires d’Hadrien (1951) che «La méditation de la mort n’apprend pas à mourir, elle ne rend pas la sortie plus facile […]»[2]‒, può indubbiamente contribuire a farci comprendere in che misura siano state stravolte le nostre abitudini nell’arco di pochi e infausti mesi.
Le crisi, inevitabili nella storia umana, costituiscono tuttavia il punto di partenza per una palingenesi a cui è fondamentale sottoporsi e il breve ma interessante volumetto dei giovani Battista Bruno e Ilina Sancineti ci offre delle linee guida in grado di sintetizzare ciò che è stato e formulare propositi per l’avvenire postpandemico.
Abbiamo sperimentato nelle tristi giornate del lockdown una sorta di dilatazione del tempo che, quantunque incapace di riportare la vita nel grigio cimitero delle ore passate, ha reso sostanzialmente interminabili quelle presenti, costringendo tutti noi al confronto con un’interiorità troppo spesso stordita dalla frenesia impostaci dalla società e con un silenzio ‒ strano, ma indispensabile ospite costui! ‒ il cui sapore avevamo sciaguratamente dimenticato o tuttalpiù relegato ai momenti di riposo notturno non accompagnati dai frastuoni della strada o dal perenne ronzio del televisore acceso.
È in questo clima di forzata sospensione che ha visto la luce Polveri dalla quarantena. Rinascita di una Fenice, segno ‒ magari minimo, ma sicuramente importante ‒ di fresche energie intellettuali incapaci di assopirsi dinanzi alla difficoltà generalizzata.
Il testo è una miscellanea di prosa e poesia, con intermezzi storici dello scrivente e di Francesco Marchianò, di cui un’operazione di sintesi appare inefficace, oltre che inutile, considerando la diversità dei temi trattati. L’identità, la famiglia, l’amicizia, il diritto, la solidarietà e molti altri spunti campeggiano tra le pagine disegnando scenari che il buonsenso collettivo potrebbe ‒ e dovrebbe ‒ rendere reali.
La pandemia ha denudato il re, mostrando la fragilità delle istituzioni ed evidenziando la necessità di una riforma generale dello Stato e della società.
Il problema economico, per quanto gravissimo e prioritario, non può non essere risolto in concomitanza con una ristrutturazione dell’impalcatura statale: non è più sufficiente sostituire le carte logore, ma è essenziale riscrivere le regole del gioco ridistribuendo ruoli e cambiando funzioni ed istituzioni che, a conti fatti, si sono dimostrate inaffidabili.
Il primo impulso ‒ comprensibile e, sotto certi aspetti, condivisibile ‒ sarebbe quello di gettare la croce sulle spalle della politica ma, benché impastoiata tra beghe di palazzo e proclami in grado di reggere il confronto con le famose grida spagnolesche del già citato Manzoni, non possiamo non procedere ad una assoluzione della stessa, dal momento che la Politica ‒ nell’accezione più antica e nobile del termine ‒ nel Belpaese latita ormai da decenni.
Pertanto, tra l’immobilismo di alcuni, le non machiavelliche e ampollose beghe toscane di altri, l’ostensione pubblica di vistosi rosari mai realmente sgranati in atto di contrita preghiera da parte di altri ancora e le urla sovrumane di rappresentanti del gentil sesso ‒ e qui sarebbe il caso di ridiscutere il valore dell’attributo “gentile” ‒, il mondo politico manca di reali statisti e, a quanto pare, l’orizzonte a cui si guarda non sembra andare al di là della prossima tornata elettorale.
Tuttavia, come si suol simpaticamente dire, «se Sparta piange, Atene non ride», dacché se il potere temporale ha mostrato le sue pecche anche quello spirituale pare uscito malconcio dal confronto con la pandemia. Urge però fare una doverosa e sentita precisazione per evitare inutili polemiche e restituire meriti e oggettività alla ricostruzione storica.
Il cristianesimo ha contribuito egregiamente ad alleviare pene materiali e spirituali di migliaia di persone colpite dal Covid-19, mostrando dedizione, sacrificio, generosità e pagando un altissimo prezzo in termini di vite con un numero elevato di sacerdoti e religiosi morti dopo aver servito, in prima linea, la causa del Cristo e del prossimo.
Lo stesso papa Francesco, nell’indimenticabile 27 marzo 2020, ha regalato al mondo un momento di altissima spiritualità in una piazza San Pietro deserta, sferzata dalla pioggia e dall’eco delle incessanti sirene delle autoambulanze in servizio nella Capitale.
Ciononostante, nel tempo dei bilanci, non si può non tener conto di una frangia codina ‒ uso di proposito questo aggettivo per rispettare, com’è giusto, le idee conservatrici che hanno un indubbio valore e non sono ovviamente in sintonia con quelle di certi ambigui personaggi ‒ del cristianesimo che, in funzione marcatamente antibergogliana ‒ ma quanta paura fanno le riforme anche nella Chiesa! ‒ si è arrogata il diritto di negare l’esistenza stessa della pandemia o di attribuirla a presunti complotti internazionali orditi da una non meglio precisata élite. Cito in proposito due casi fortunatamente riportati dai quotidiani: quello di padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, e quello del sacerdote di Fabriano che, in quanto negazionista, ha provveduto con la sua positività a diffondere il virus tra parrocchiani e confratelli.
Non meno eclatante è stato il caso del patriarca ortodosso ucraino Filaret che, pochi giorni dopo aver lanciato strali contro gli omossessuali additandoli come responsabili della pandemia, ha contratto il Covid-19, costringendo noi umili e curiosi spulciatori di quotidiani ad ipotizzare una provvidenziale nemesi divina o una bizzarra e fortuita rivelazione di repressi orientamenti del prelato.
Nel rinnovamento che il periodo postpandemico porta con sé non si può non tener conto di simili episodi che suggeriscono caldamente di riportare al centro la ragione evangelica e di rischiarare il rapporto tra fede e scienza ‒ tra la preghiera e la terapia, per attualizzare la questione ‒ alla luce di un conflitto assolutamente inesistente poiché, come saggiamente ricordato nella Gaudium et spes (n. 36), «le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio».
Senza invischiarci ulteriormente in questioni teologiche, è evidente che l’ondata epidemica è stata foriera di novità ‒ positive e negative ‒ dinanzi alle quali le tradizionali strutture non hanno retto. Per dirla evangelicamente: il vino nuovo, a causa dei suoi fermenti, ha provocato la rottura degli otri vecchi.
Ne emerge l’assoluta necessità di riadeguare la società ad uno stile di vita che dovrebbe contemplare la possibilità di ulteriori eventi del genere che, a detta degli esperti del settore, saranno sempre più frequenti in un futuro più o meno vicino.
Tuttavia, il passaggio preliminare è quello della rinascita: occorre far fiorire le macerie o, riprendendo il titolo del volumetto di Bruno e Sancineti, è necessario creare le condizioni affinché la Fenice possa risorgere dalle sue ceneri.
L’opera dei due giovani autori racchiude, in proposito, grumi di saggezza che, adeguatamente sfruttati, ci possono accompagnare in questo processo di riedificazione sociale e morale.
Si tratta, nella fattispecie, del racconto di modelli positivi che hanno saputo valorizzare luoghi, attitudini e situazioni nel bel mezzo della catastrofe sanitaria: cito, a titolo esemplificativo, soltanto le vicende di Domenico Pantuso, sempre memore delle sue origini e instancabile custode delle tradizioni della terra calabra, e di Grazia Ciappetta che, in qualità di volontaria ospedaliera, ha apportato sollievo ai sofferenti presso il nosocomio di Cosenza, sfidando quotidianamente i pericoli del Covid-19.
È inutile rilevare l’importanza che la cultura è chiamata ad avere in questo mutato scenario mondiale con il necessario abbandono di quei modelli totalizzanti e centralizzati che hanno dominato le scene sino allo scorso anno. Il periodo pandemico ha mostrato la debolezza degli intellettuali “da mercato”, rimasti improvvisamente senza acquirenti e senza pubblico, ed ha contemporaneamente proiettato l’attenzione sui vivaci fermenti culturali della provincia che, a ben vedere, continua ad essere un prezioso serbatoio, una vera e propria riserva etica del Paese.
Insomma, la comunità del futuro è chiamata a porre al centro delle proprie scelte la memoria tragica dell’ondata epidemica ‒ del resto, riflettendoci, l’Odissea stessa sarebbe stata inutile, se non impossibile, qualora Ulisse avesse mangiato i fiori di loto abbandonandosi alla dimenticanza ‒ e a far sì che i posteri guardino con ammirazione e rispetto i frutti nati da tanta sofferenza.
In un’opera di George Bernard Shaw il fuoco si avvicina pericolosamente alla biblioteca di Alessandria, minacciando di carbonizzarne i volumi e distruggere quella che era la memoria dell’umanità. Un irrealistico Cesare, avvertito del pericolo, esclama incurante: «Lasciala bruciare. È una memoria d’infamie».
Occorre evitare tutto questo, rendere gradevole il ricordo dopo la sventura e Polveri dalla quarantena contiene piccoli ma possenti appigli per ripartire.
[1] “La mia salute fu minacciata. Il terrore arrivava. Io cadevo in sonni che duravano più giorni, e, destato, continuavo i sogni più tristi. Ero pronto per il trapasso, e, attraverso una strada di pericoli, la mia debolezza mi conduceva ai confini del mondo […]”.
[2] “La meditazione sulla morte non insegna a morire, non rende la dipartita più semplice”.