Se il gol non era bello, se belli erano i versi
di
Ettore Marino
Philip Anthony Dark, maestro di Football e di cent’altre cose, in un remoto pomeriggio in cui il sole stentava a morire sulla polvere gialla del nostro campo di allenamento, fece notare a tutti noi suoi discepoli che un tiro banale che va in rete sarà, sì, dimenticato, ma quella rete potrebbe averti fatto vincere l’incontro. “E chi” concluse “chiamerà mai banale una vittoria?”
La gioventù è cosa bella; squallida e trista la vecchiaia; penosa è un’esistenza di sempre uguale fatica; l’amore è dolce, ed è il solo e fugace riscatto… Assentire è spontaneo. Banalità? Lo sono, se enunciate così, secche e crude. Cantate da un poeta, e il poeta è Mimnermo, diventano altro, e ci nutrono, e la loro vittoria sta in ciò. Che le scelte degli uomini e il naufragio dei testi abbian ridotto Mimnermo a quasi mero poeta dell’età verde e dell’amore, è un fatto che inquieta solo chi di certe inquietudini va pedantescamente a caccia. Mimnermo (pedante non è dirlo, ma sdegnarsi che altri lo ignori) cantò pure le antichità della sua gente, e fatti d’arme. Ce ne rimangon due frammenti: palpitante e bellissimo uno, ma eviteremo di tradurlo. Nel possesso comune e sancito di chi frequenta la poesia greca, Mimnermo rimane il tedoforo dei troppo brevi doni che Amore fa strappare alla lieta stagione che fugge. “Vita o dolcezza è mai senza Afrodite / d’oro? Ch’io muoia prima che in me tacciano / l’amore che si cela, i dolci doni, / il giaciglio – quei fiori che uomo e donna / strappa alla gioventù. L’aspra vecchiezza / incombe, ci fa squallidi, malvagi; / attossica la mente con immoti / pensieri cupi, disfa la dolcezza / del sole, della luce, rende odiosi / ai ragazzi, e le donne ci disprezzano. / Orrenda volle la vecchiezza un dio.”
Il Sole, figlio di Iperione, il Sole sempre giovane, che comunque dà vita e dà gioia, il Sole stesso dura pena perenne. “Fatica d’ogni giorno è il destino del sole. / Né mai c’è tregua alcuna, per lui, pei suoi cavalli, / dacché l’Aurora dalle dita di rosa lascia / l’Oceano e torna in cielo. Pei flutti lo conduce / un concavo giaciglio, alato, a fior dell’acqua. / Fu la mano di Efesto a lavorarlo in oro / prezioso. Egli vi dorme rapito dalle terre / d’Esperia alle contrade etiopi, dove il carro, / dove i cavalli attendono la luce dell’Aurora. / Là il figlio di Iperione rimonta sul suo cocchio.”
Per il suo sposo, un leggiadro mortale di nome Titono, Aurora aveva chiesto a Zeus il dono dell’immortalità. Dimenticò però di chiedergli anche quello dell’eterna giovinezza, e Titono in eterno invecchiava… “Titono ebbe da Zeus un male senza fine: / vecchiezza, che raggela più della tetra morte.”
Il frammento che segue, citato non a caso da Stobeo in Sulla verità, è da Stobeo medesimo detto appartenere alle elegie per Nannò, la suonatrice di flauto che il poeta amava. Ciò farebbe pensare che Verità sia qui una continua cosciente lealtà nei rapporti tra l’uomo e la donna. Ma una strana fortuna investe ogni frammento reso forzosamente tale dal vanire del resto; a detta fortuna, che ce lo fa svincolare dalla sua contingenza, noi ci aggrappiamo grati, e il frammento in questione leggiamo, un po’ monelli, come massima ottativamente vincolante ogni Io e ogni Tu che abbiano a incontrarsi e a percorrere insieme un più o meno breve tratto di strada. “Verità resti accanto / a te, a me: di tutte, la cosa più giusta.”
E con la speranza che al lettore non siano spiaciute né le mie note né le traduzioni che ho tentato, chiudo questo mio scritto: sereno, perché, sia pur se vecchio, mi sento tanto tanto giovane.