“I Medici”, saga del potere, dell’arte e della vita
di
Mario Gaudio
Il caso ‒ o chi per lui ‒ ha disposto che mi immergessi nella saga di Matteo Strukul subito dopo aver riletto, per l’ennesima volta, Il principe di Niccolò Machiavelli. Tale mirabile circostanza, fortuita ma essenziale, è alla base di questa recensione e delle idee interpretative che vi sono sottese.
Premesso ciò, per rigor di logica e chiarezza espositiva, è necessario proseguir per gradi, spendendo innanzitutto qualche parola sulla struttura dei romanzi oggetto del presente studio.
I Medici assume forma di tetralogia costituita da quattro corposi scritti: Una dinastia al potere, Un uomo al potere, Una regina al potere e Decadenza di una famiglia.
L’autore sceglie sapientemente di procedere per giustapposizione di blocchi narrativi, creando le condizioni ottimali per abbracciare un ampio arco cronologico che spazia dal febbraio 1429 al maggio 1640 e fornendo al lettore la possibilità di cimentarsi sui singoli volumi senza il bisogno di affrontare l’intera saga per comprenderne il senso.
Strukul costruisce un complesso romanzo storico i cui protagonisti appartengono alla ricca e potente famiglia dei Medici, una delle più illustri e influenti del Rinascimento, che ha dato i natali a uomini e donne capaci di incidere profondamente sul corso degli eventi e di determinare il destino di popoli e nazioni.
Ogni romanzo della tetralogia è sviluppato in modo tale da far convergere tutte le linee narrative su un singolo personaggio ‒ una sorta di punto di fuga ‒ che, come abbiam detto, appartiene alla schiatta medicea e condivide con i suoi omologhi presenti nei restanti volumi almeno tre elementi portanti: l’ambizione, l’abilità politica e la lotta per la conquista del potere.
Seguendo tale assioma, lo scrittore padovano assembla Una dinastia al potere attorno alla figura di Cosimo il Vecchio, figlio di Giovanni de’ Medici e artefice dell’affermazione del casato a Firenze.
Stratega consumato e finissimo conoscitore dei moti dell’animo umano, Cosimo raccoglie l’eredità morale del padre morente ‒ che lo invita a comportarsi nell’agone politico con moderazione e fermezza nelle decisioni ‒ affrontando in maniera risoluta la rivalità con le famiglie di Rinaldo degli Albizzi e Palla Strozzi che tentano di eclissare in tutti i modi il suo astro nascente.
Accanto a lui, in una sorta di simbiotico equilibrio, opera Lorenzo, fratello minore e uomo fidatissimo, al quale è stata affidata la cura degli affari del Banco Medici e delle sue numerose filiali.
I due costituiscono una coppia complementare in cui l’irruenza del primogenito è stemperata dalla prudenza del più giovane dei Medici, ma la loro solida unità di intenti li condurrà a superare con successo l’accusa di attentato alle istituzioni repubblicane fiorentine e il periodo di esilio veneziano.
Cosimo fiuta debolezze e vanità degli uomini, le asservisce alla propria causa, accetta compromessi e forgia pazientemente una strana alleanza tra Firenze, Venezia, Roma e Milano che gli consentirà di diventare de facto il signore della sua città, pur mantenendo in vita le antiche strutture giuridiche della Repubblica. Per far ciò, egli blandisce le aspirazioni di Francesco Sforza, valoroso capitano di ventura che mira a sottrarre il Ducato di Milano allo squallido Filippo Maria Visconti, uomo inetto, bilioso, superstizioso, dalle carni flaccide e dal pensiero sconvolto, che semina terrore tra i suoi sudditi e rimane a sua volta sgomento dinanzi al responso dei tarocchi.
Un ulteriore rafforzamento del prestigio del casato mediceo giunge da parte di papa Eugenio IV che accetta di tener concilio a Firenze (1439) nell’ambizioso tentativo di sancire una rinnovata unità tra il cattolicesimo romano e la cristianità ortodossa.
Tuttavia, l’arma vincente di Cosimo il Vecchio è il consenso delle classi popolari che, sprezzate dalle dinastie di antica nobiltà, lo identificano come unico difensore delle loro istanze.
Del resto, parecchi decenni dopo, lo stesso Machiavelli insisterà sull’importanza del sostegno delle classi più umili raccomandando al suo principe ideale di «[…] cercare di guadagnarsi el populo: il che gli fia facile quando pigli la protezione sua. E perché gli uomini, quando hanno bene da chi credevano avere male, si obligano più al beneficatore loro, diventa el populo subito più suo benivolo che se si fussi condotto al principato con li favori suoi […]» (Il principe, IX).
Il medesimo appoggio popolare sarà la priorità anche di Lorenzo de’ Medici, il Magnifico, imponente protagonista di Un uomo al potere.
Di animo sensibile, affascinato da arte, musica e letteratura, sarà costretto a soffocare continuamente le voci del suo umanesimo sobbarcandosi il peso delle responsabilità, le doppiezze del potere e l’incessante necessità di portare avanti gli interessi del proprio casato.
È chiamato a consolidare la posizione politica del partito di cui è a capo e ciò lo induce ad assumere atteggiamenti carichi di cinismo sacrificando, non senza dolore, le proprie aspirazioni.
La ragion di Stato ‒ si sa ‒ non ammette tentennamenti che, a conti fatti, potrebbero risultare fatali e ciò indurisce il carattere del Magnifico che non esita a negare la grazia ai vinti giustificando ad esempio l’esecuzione di Bernardo Nardi, responsabile della rivolta di Prato, in questi termini: «Poiché vi garantisco che con un solo atto di giustizia, oggi, abbiamo evitato le tante guerre di domani!».
A rendere ancor più dilaniato il suo animo contribuisce l’amore tormentato per Lucrezia Donati, donna di spirito pronto e sensualità indiscussa, che Lorenzo è costretto a frequentare nottetempo e in gran segreto poiché già ammogliato, per motivi di alleanza dinastica, con Clarice Orsini, figura triste che combatte le sofferenze derivanti dai ben noti tradimenti del marito seppellendosi nella preghiera.
Il Magnifico, al pari del suo antenato Cosimo, ben conosce l’astio e la volubilità degli uomini, ma ciò non gli permetterà di sventare una congiura ‒ ordita da Girolamo Riario, nipote di papa Sisto IV, e Francesco de’ Pazzi ‒ che culminerà nell’attentato consumato durante la messa di Pasqua del 1478 (26 aprile) e nella morte del fratello Giuliano.
Strukul descrive con particolare attenzione il cruento episodio, soffermandosi sulla bellezza del contesto in cui avviene ‒ la cattedrale di Santa Maria del Fiore ‒, sullo stupore dell’ignaro cardinale Raffaello Riario che officia la liturgia e sul gesto vigliacco di uno dei sicari ‒ Bernardo Bandini ‒ che, sfoggiando falsa amicizia, abbraccia Giuliano per assicurarsi che sia privo del giaco e non nasconda tra le vesti una daga o un pugnale per la difesa.
Lorenzo riuscirà a salvarsi in extremis rifugiandosi con un esiguo gruppo di fedelissimi presso la sagrestia del sacro tempio, ma da quel momento inizierà un nuovo e sanguinoso corso degli eventi.
La repressione contro i Pazzi e i loro alleati sarà tremenda. Firenze precipita nel caos, le esecuzioni procedono ininterrottamente per svariati giorni e il popolo ne approfitta per alimentare i disordini sfogando i suoi bassi istinti in una sorta di macabro carnevale di sangue nel quale proliferano prepotenze, ruberie e vendette private travestite da atti di giustizia.
Ad onor del vero, occorre chiarire che il Magnifico non concede il suo consenso a questa grande mattanza ma, al contempo, non si affretta a soffocarla, probabilmente per indiretta convenienza o, per esser più clementi, per evitare un aperto contrasto con gli alti membri del partito mediceo ai quali la situazione di confusione generale giova per rafforzare le proprie posizioni e regolare vecchi conti contro scomodi avversari politici.
Anche l’occulto regista della cospirazione, Francesco de’ Pazzi, finirà i suoi giorni penzolando da una forca, ma è bene tracciare almeno un aspetto della sua perversa personalità. Uomo di acuta intelligenza, non lesina di far comunque onore al suo nome, mostrando una folle e velenosa rivalità nei confronti dei Medici che lo condurrà alla rovina. Accecato dal livore, si accanisce come un forsennato sul corpo ormai martoriato di Giuliano, riproducendo crudelmente quello spettacolo di rabbia e sangue di cui era stato protagonista qualche tempo prima durante una caccia al cinghiale. A tale brutalità il giovane aristocratico associa un biasimevole disprezzo verso le istituzioni, tanto da presentarsi nudo davanti alle magistrature fiorentine incaricate di processarlo.
Congiure e violenze deturpano l’epoca di Lorenzo il Magnifico e, in virtù delle insondabili azioni di quelle forze beffarde che governano la Storia, esse si ripropongono anche nelle vicende di Caterina e Maria de’ Medici, protagoniste rispettivamente di Una regina al potere e Decadenza di una famiglia.
Le due nobildonne, sebbene vissute in epoche diverse, si ritrovano ad avere un destino comune. Entrambe siedono sul trono di Francia osteggiate da una corte che le addita sprezzantemente come «italiane» e «mercantesse» e ambedue sono costrette a difendersi dalle favorite del re in carica che, attraverso l’arte seduttiva, condizionano e indirizzano le azioni politiche.
Caterina riesce solo dopo lungo tempo ad avere la meglio sulla sua rivale Diana di Poitiers e a ritagliarsi un legittimo spazio di potere in un contesto nobiliare maledettamente instabile e attraversato da vanità, pettegolezzi e tradimenti.
Le sue azioni sono indirizzate da un libro ‒ Il principe del Machiavelli ‒ che legge e rilegge a mo’ di breviario e dai consigli di un misterioso astrologo di corte ‒ il famoso Nastradamus ‒ che si profonde in sibilline e tenebrose profezie e altrettanto oscure interpretazioni del corso delle stelle.
Tuttavia, la regnante perde il controllo della situazione o ‒ questione di punti di vista ‒ si irrigidisce nel cinismo a tal punto da rimanere invischiata nella trappola delle guerre di religione sino a divenire corresponsabile ‒ assieme a suo figlio Carlo IX di Valois ‒ della vergognosa strage della notte di san Bartolomeo (23-24 agosto 1572) durante la quale i cattolici francesi sterminarono migliaia di ugonotti rei soltanto di aver aderito alle chiese riformate.
Caterina si ritrova nel bel mezzo dello scontro tra la fazione dei Guisa (cattolici) e quella dei Borbone (protestanti), continuando a crogiolarsi nel potere e passando alla storia con la sinistra fama di «regina maledetta».
La stessa Maria de’ Medici non ha miglior sorte dovendo spegnere le pretese della viperina rivale Henriette d’Entragues, fronteggiare l’ostilità del suo apatico, effemminato e mal consigliato figlio Luigi XIII e sventare una serie di complotti perpetrati dalla nobiltà a danno della casa reale.
Benché provata da tali angustiosi avvenimenti, l’ormai anziana regina, ingiustamente allontanata dalla corte, riesce a trovar pace rifugiandosi nel bello e nell’arte grazie ai servigi e all’affetto del pittore fiammingo Pieter Paul Rubens, sancendo di fatto il declino della potentissima dinastia medicea.
È evidente che un’opera articolata e voluminosa ‒ oltre mille pagine ‒ come quella di Strukul non si focalizza soltanto sui quattro protagonisti appena esaminati, ma ospita una pletora di personaggi che, nelle loro peculiarità, incarnano i vizi e le virtù della più varia umanità. Alcuni di questi hanno tratti particolarmente significativi sui quali è doveroso formulare qualche considerazione.
Laura Ricci, donna dai conturbanti occhi verdi e dalla pelle color cannella, incarna lo spirito della vendetta. Per un terribile equivoco si macera nell’odio viscerale contro la famiglia Medici, consacrando se stessa e la sua prole al diabolico scopo di poter nuocere a Cosimo il Vecchio e ai suoi discendenti. Esperta nelle arti della seduzione, dell’intrigo e dei veleni, sebbene vittima di un passato penalizzante, si ammanta di peccato e turpitudine perdendo tutto ciò che ha di più caro e trovando finalmente quiete nel suicidio. Bella e maledetta, ben starebbe accanto alla Medea di Euripide con la quale compete in crudeltà.
Piccarda de’ Bueri e Contessina de’ Bardi, rispettivamente madre e moglie di Cosimo de’ Medici, appaiono sagge e determinate nel loro ruolo, pilastro sicuro nei momenti di smarrimento, fedeli e provvide nelle battaglie combattute in nome e per gli interessi della famiglia a cui appartengono. Sono, senza dubbio, vere e proprie matrone d’altri tempi, artefici silenziose ma essenziali del successo dei loro congiunti che, discendenti di semplici lanaioli del Mugello, si ritrovano tra le mani la signoria di una città.
Reinhardt Schwartz è uno dei tanti mercenari svizzeri che bivaccano nella caotica penisola italiana gozzovigliando nelle taverne e servendo in armi i vari signorotti locali in cambio di denaro. È feroce in battaglia, sprezzante del pericolo, ma dilaniato interiormente dal senso di colpa per uno stupro perpetrato in gioventù proprio ai danni di Laura Ricci, l’unica donna per cui riesce a provare un sentimento amoroso. La sua natura ferina trova riscatto nella fermezza ‒ al limite della spavalderia ‒ con cui affronta il patibolo, impressionando persino Cosimo il Vecchio e gli alti magistrati fiorentini che lo hanno condannato.
Raimond de Polignac, comandante generale dei picchieri del re, è l’esempio del soldato integerrimo, irreprensibile in quanto a fedeltà nei confronti della sovrana Caterina ‒ virtù rara nella malsana bolgia della corte francese ‒ e disposto persino a morire per proteggerne la vita e l’onore.
Il cardinale Richelieu, vecchia conoscenza della letteratura, si impone sulla scena come l’emblema del politico infido, dotato di brillante oratoria e campione nel gioco del calcolo e del mutamento repentino delle alleanze. È figura certamente riprovevole, i cui discendenti morali ancora infestano i parlamenti nazionali sedendo talvolta sugli scranni più alti e onorevoli.
Il potere è dunque il leitmotiv della tetralogia di Strukul e si accompagna, spesso e volentieri, al mecenatismo che i Medici praticano come esercizio di prestigio e visibilità. Molti sono gli artisti che si affacciano tra le pagine dello scrittore padovano, ma tre di questi meritano sicuramente un posto d’onore: Filippo Brunelleschi, geniale e trasandato orafo che porta a termine la maestosa cupola di Santa Maria del Fiore; Leonardo da Vinci, acuto osservatore dei misteri della Natura, costruttore di strani marchingegni e teorizzatore del volo umano, ossessionato dal sogno ricorrente di un nibbio; Pieter Paul Rubens la cui pittura dona sollievo allo spirito tribolato di Maria de’ Medici.
Al di là di ogni meschino e ipocrita moto di puritanesimo, il potere va spesso a braccetto con il sesso che colora alcune delle pagine più riuscite della tetralogia in esame. Non mancano forme malate ed esecrabili ‒ basti pensare ai rapporti incestuosi tra la non più giovane ma avvenente Laura Ricci e suo figlio Ludovico o alla soddisfazione compulsiva degli istinti carnali da parte del perverso Girolamo Riario ‒, son presenti relazioni finalizzate ad ottener prestigio ed influenza ‒ è il caso delle avide favorite dei re di Francia ‒, ma tutto ciò viene abbondantemente riscattato dal candore delle tenerezze coniugali e dalle delicatezze che intercorrono tra gli amanti che, grazie ai loro appassionati amplessi, si divincolano temporaneamente dai legami matrimoniali imposti loro dalla ragion di Stato e dalle improrogabili necessità delle alleanze dinastiche.
L’opera di Strukul è di palese matrice corale e la folla ‒ o il popolo che dir si voglia, per non offender qualche benpensante testolina politica ‒ ricopre un ruolo di primissimo piano. Gli uomini e le donne delle classi sociali più umili rumoreggiano per le piazze e i vicoli accompagnando scene truculente che il nostro autore racchiude in preziosi quadri narrativi che rievocano all’attento lettore alcune pagine manzoniane de I promessi sposi e ancor più della Storia della colonna infame.
I popolani sfogano miseria e frustrazione sputando sui nobili condotti al patibolo ‒ colpevoli di crimini perpetrati, sia ben chiaro, solo ed esclusivamente verso i loro aristocratici pari ‒, lanciando sui detenuti frutta marcia, smembrando corpi dissepolti di condannati a morte ‒ è ciò che accade ai resti del maresciallo Contino Contini ‒, ma ignorando totalmente di esser pedine nelle mani di giocatori ben più scaltri.
Tuttavia, lo stesso popolo paga ‒ quasi a voler dimostrare che la Natura abbia scatenato la propria nemesi contro gli istinti più bassi e brutali ‒ il tributo più alto quando la peste aggredisce Firenze «come una muta di cani infernali». Nel mentre i nobiluomini trovano riparo nelle loro residenze di campagna, la folla spettrale si riversa senza scopo tra le vie ammorbate e brulicanti di cadaveri i cui umori mortiferi sono puntualmente lappati dai cani randagi. Al posto della giustizia regna l’anarchia e lì dove un tempo si applaudiva dinanzi alle forche funzionanti ora si versano lacrime per i congiunti straziati dai bubboni e prossimi a render l’anima a Dio.
Da queste poche note si può facilmente intuire la complessità del multiverso letterario creato da Matteo Strukul che è riuscito a costruire una solida e armoniosa architettura ‒ il pensiero corre spontaneo alla già richiamata cupola fiorentina del Brunelleschi ‒ in cui convivono prestigio, potere, congiure, duelli, attentati, ragion di Stato e fragili alleanze, sentimenti, pettegolezzi, relazioni clandestine e tradimenti di ogni sorta, volontà di riscatto, follia, esilio e corruzione.
Insomma, Strukul ricorda Dumas e come tale non delude. C’è in lui l’impietosa lucidità del Machiavelli, l’ispirazione del caro Manzoni, il metodo di Victor Hugo e il tratto di Balzac e, tra tanta mediocrità letteraria dei nostri giorni, di certo è inaspettato e lodevole l’elevato livello raggiunto dallo scrittore padovano.
Il tempo ‒ lo sappiamo tutti ‒ è giudice e carnefice ma, fuor di dubbio, tributerà i giusti onori a Matteo Strukul.