Il mito di Coppi e la penna di Brera
di
Mario Gaudio
Coppi e il diavolo non poteva che venir fuori dalla penna di Gianni Brera, uomo e giornalista d’altri tempi di cui, nel marasma attuale di svergognata mediocrità elevata a sistema, si sente l’evidente mancanza.
Con prosa che fluisce al pari dei nastri d’asfalto divorati da Coppi, lo scrittore lombardo racconta ‒ senza retorica o nefaste finalità agiografiche ‒ le vicende umane e sportive del Campionissimo, non impantanandosi nelle paludi del genere biografico, ma ricorrendo alla forma schietta di un romanzo non romanzato ‒ il lettore mi perdoni la cacofonia e il bizzarro accostamento di termini ‒ che, a conti fatti, pare essere lo strumento più idoneo a tramandare le imprese di un protagonista assoluto dell’epoca d’oro del ciclismo italiano.
Tuttavia, Brera ‒ che di umane debolezze e vini generosi era fine intenditore ‒ ci presenta un Coppi non patinato, diverso da quello ospitato di frequente sulle rosee pagine della Gazzetta dello Sport, e con tratti che racchiudono una complessità caratteriale fortemente segnata dai luoghi e dalle condizioni d’origine.
Insomma, scomodando Foscolo, potremmo dire che Brera «gli allor ne sfronda», offrendoci un mito demitizzato, ma reso grandioso proprio dalle sue fragilità profondamente umane.
Tutto parte da un borgo, Castellania, in cui si stenta a campare tra quotidiano sacrificio, terre ingenerose e fame atavica. La durezza delle zolle pare proiettarsi sui caratteri introversi di abitanti taciturni e ostinati che stemprano la fatica dell’aratro e i pesi dell’esistenza in rustiche e fumiganti osterie che diventan punto di ritrovo ‒ l’unico ‒ per strologare sui raccolti venturi, menare in corpo pinte di stordente barbera e crear rumorose e alticce fazioni in sostegno dei propri beniamini del ciclismo e del calcio.
Esattamente in questo contesto, nel 1919, nasce Fausto Coppi che ‒ superfluo dirlo ‒ appartiene ad una famiglia contadina la quale, benché non pianga miseria, non può certo definirsi ricca.
Superando pappine, primi passi e marachelle ‒ di cui poco ci importa e che il benevolo lettore potrà approfondir sua sponte ‒, ritroviamo il giovane Fausto a Novi Ligure nei panni del garzone di salumeria che, per accelerar consegne e intascare poche e sudate lire, salta in groppa ad un catorcio ‒ difficilmente definibile bicicletta ‒ su cui le sue sottili e sproporzionate gambe cominciano a muovere le prime energiche pedalate.
Poco tempo dopo, con una Maino nuova di zecca in dotazione ‒ costoso dono di uno zio marinaio ‒ e parecchi chilometri già macinati in gare dilettantistiche, avviene l’incontro destinato a cambiare definitivamente la vita del futuro campione: quello con Biagio Cavanna.
Vecchia conoscenza del ciclismo, scopritore e mentore di Costante Girardengo e Learco Guerra, l’«orbo veggente» ‒ com’era stato poco simpaticamente ribattezzato dalla stampa, a causa della sua inguaribile cecità ‒ ha la dote di riconoscere il valore degli atleti, tastandone i muscoli con la medesima perizia con cui, nel comune e immutabile buio, si dice che il greco Omero sfiorasse, in epoche remote, le tombe degli eroi al fin di trarre ispirazione per i suoi immortali versi.
Cavanna, massaggiatore esperto e psicologo improvvisato, analizza con i suoi sensibilissimi polpastrelli le lunghe leve di Coppi, intuendo nel giovane piemontese la stoffa del fenomeno e la fragilità di uno «scheletro di vetro» ‒ son parole di Brera ‒ che, più e più volte, sarà ammaccato da infortuni.
Inizia da qui la parabola inarrestabile del Campionissimo nel mondo del ciclismo professionistico, con l’inevitabile pausa bellica di mezzo ‒ durante la quale Coppi, spedito sul fronte africano, sarà prigioniero degli inglesi ‒ e l’invidiabile sfilza di primati tra cui è doveroso ricordare almeno le cinque vittorie al Giro d’Italia e i due trionfi al Tour de France.
Sono anni di ciclismo epico in cui i corridori scalano le vette più impervie tra schizzi di fango, sbuffi di polvere e folate improvvise di vento. Non esistono divise in tessuto tecnico, ma rozzi calzoncini e maglioni inadeguati; ci si protegge con semplici caschi di cuoio imbottito; si utilizzano biciclette dal peso notevole e non perfettamente stabili; ci si ricarica ‒ per buona pace degli attuali salutisti e sfegatati sostenitori di bevande e barrette energetiche ‒ ingurgitando di fretta acqua, uova, pane e salame. In poche parole: sulla strada si combatte.
Non mancano i duelli tra squadre rivali ‒ particolarmente accaniti quelli tra la Bianchi e la Legnano ‒, così come non si contano gli antagonismi tra singoli corridori e, ovviamente, la memoria torna alle leggendarie battaglie tra il piemontese Coppi e il toscanaccio Gino Bartali.
Tanto ardimento si accompagna a cadute e infortuni che tormenteranno il cagionevole corpo di Fausto ‒ già minato da una febbre tifoidea contratta in anni passati ‒ e porteranno lutto alla sua famiglia con la tragica morte del fratello Serse ‒ anch’egli ciclista ‒, calato nella tomba per i postumi di un incidente al Giro del Piemonte del 1951.
Ben presto, il mondo delle antiche corse ‒ drammatico e romantico al tempo stesso ‒ subisce un mutamento di stile e l’alleanza tra chimica e medicina irrompe tra le fatiche agonistiche in modo funesto attraverso quelle pillole di simpamina (primitiva sostanza dopante) che lo stesso Coppi non esiterà ad utilizzare.
Ciononostante, il Campionissimo continua ad apparir su strada e su pista con sembiante e autorità di creatura quasi mitologica, logorandosi le ginocchia e affrontando le sue ultime corse con la proverbiale coriacea volontà di contadino che subentra alla scemante resistenza fisica.
L’astro del corridore è ormai al tramonto e il destino beffardo lo fredda, appena quarantenne, inoculandogli una malaria curabilissima con qualche dose di chinino, ma non diagnosticata per tempo da spocchiosi medici italiani incapaci di accogliere il suggerimento del fratello di Raphaël Geminiani, ciclista francese partecipante allo stesso safari africano dal quale Coppi era tornato febbricitante.
Il mito del campione di Castellania resiste, come prevedibile, alla sua dipartita e rende ammirevole un eroe dello sport che, nonostante gli infortuni, le fragilità umane, lo scandalo della relazione adulterina con la conturbante “Dama Bianca” (Giulia Occhini Locatelli) ‒ episodio narrato da Brera con rara delicatezza e umana comprensione ‒, resta un modello e un esempio per le generazioni successive.
Coppi e il diavolo racchiude in sé l’ambizione della meta, il dolore dello sforzo, la iattura delle forature e l’onnipresente odore di mastice delle antiche competizioni ciclistiche ma, senza dubbio alcuno, il merito principale dell’autore è quello di aver compreso il motivo profondo che ha spinto il Campionissimo a consumare convulsamente la propria vita sui pedali. Coppi ha portato le stigmate della sua origine, ha corso sempre più veloce per non farsi agguantare dalla fame ancestrale della terra natia, «ha sofferto l’esistenza dei poveri e le si è ribellato con sacrifici di epica imponenza».
Sono anni torbidi e di pandemia: ci mancano gli eroi come Coppi e gli uomini come Brera in grado di raccontarceli.