23 Dicembre 2024
Letteratura

Ein geländerter Steig. Nota su Federico Schiller

di

Ettore Marino

Il breve saggio che segue mi era stato gentilmente pubblicato nel numero 74 (Gennaio – Giugno 2023) de ilfilorosso di Cosenza, ricco e leggiadro semestrale di cultura che con eguale gentilezza mi permette di riproporlo ai lettori di Terre Letterarie.

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Non ho mai incontrato nessuno che avesse letto Schiller. Non è colpa né merito. Sull’eventuale perché tenterò ben due ipotesi: una severa, una monella. Intanto: quale felicità sognò il poeta svevo?

Svevo di Marbach era infatti. Medico dell’esercito, la tesi con cui si era laureato aveva a titolo Sul nesso tra la natura animale e quella spirituale dell’uomo. Due nature, e un nesso che le avvince. Qui la chiave di volta. Tutto avrà poi a espandersi e ad approfondirsi: in drammi, ricerche storiografiche, saggi filosofici, ballate, liriche, epigrammi… Batté pure la via del romanzo, abbozzandone uno; e fu eccellente giornalista.

Anche la più aurorale forma di riflessione palesa a chi la compie il disagio di una separatezza. Della separatezza, l’intensità analitica rese chiari allo svevo snodi e forme: Io e Mondo, Io e Io altrui, Corpo e Spirito, Necessità e Libertà, Natura e Storia, Legge e Arbitrio, Morale e Politica, Bello e Sublime, Grazia e Dignità… Separatezza è anelito all’unità. L’atto unificatorio tentato da Schiller sarà di rinvenire un nodo che salvifico stringa le istanze eccentriche o addirittura dilanianti, senza però cassare le determinatezze. Indagare il Bello e il Sublime era nello spirito dell’epoca. Lo aveva compiuto anche Kant, che Schiller lesse e meditò partendo dalla Critica del Giudizio. Sublimità sarà per Schiller la potestà ammirevole di una volontà che sappia non essere schiava delle inclinazioni, laddove sarà Bellezza la “libertà nel fenomeno”, cioè la spontaneità determinantesi da sé. Selvaggio è chi rimane schiavo delle inclinazioni, barbaro chi le soffoca. Bella sarà chiamata l’anima in cui il senso morale sia quasi un istinto armonizzante “sensibilità e ragione, dovere e inclinazione. La manifestazione di un tale modo d’essere verrà riconosciuta come grazia.” (Grazia e Dignità, 1793).

Tiranno, lo spazio nega nuovi scavi. Spero comunque che sia chiaro che la felicità sognata da Schiller si dispiegasse in un’ariosa plasticità che ha nome di Armonia: auspicata, più che certa e trionfante. Figlia spontanea dell’identità è l’azione. Agire è però scelta, ogni scelta è una colpa, la reazione del mondo è destino, l’esito può fiorire amaro. È quanto patisce il Wallenstein dell’omonima trilogia drammatica (1798-1799), cui è colpa l’agire, cui è colpa l’indugio. Hegel ne saprà dare una lettura superba (Sul Wallenstein, data supposta il 1801). Il cupo portentoso eroe vuole restare al di qua dell’azione, in un’indeterminatezza che arresti eventi e tempo. Ma il contraccolpo della determinazione biforca ramificandosi in lui e fuori di lui. Sarà tristezza inesorata, e Hegel è scosso da un brivido: “Vita contro vita; ma contro la vita si leva soltanto la morte e – incredibile, insopportabile! – la morte vince la vita!” (traduzione di Furia Valori).

In una portentosa enfatica sgroppata lungo le ère dell’Umanità (La passeggiata, 1796), Schiller immagina un abisso. Traduciamone i versi: “Vedo l’etere immenso, in alto, in basso, / e tremore e vertigine mi colgono. / Ma tra le eterne immensità un viottolo / balaustrato rassicura e guida / laggiù il viatore.” Un balaustrato viottolo, ein geländerter Steig: da qui il titolo che diedi a questa nota. È un’immagine goffa. L’ha fatta germogliare la volontà di fornire sicurezza. Altrove, alla poesia e alla scena viene evitato il rischio che le si scambi con la vita. Il verso, infatti, e il gioco della rima, fugheranno la possibilità stessa dell’equivoco: “Seria è la vita, serena è l’arte.” (Wallenstein. Prologo). È forse proprio il (generoso e umanissimo) intento di rassicurare a tenere lontano da Schiller chi alla Poesia chiede un naufragio irredimibile. La nostalgia del Caos: pretesto a chissà quante chiacchiere presso i titani da salotto; la nostalgia del Caos: ansia reale, autentica, di un balzo che travalichi lo hóros (confine) dissolvendoti in quanto era prima di ciò che i nomi catturano e rendono nostro…

Schiller, intanto, è poco letto. All’ipotesi greve seguirà quella sbarazzina. Schiller fu fabbro di bronzee sentenze: importanti concetti secondo Benedetto Croce, immortali banalità per Oswald Spengler. Crudamente banali se avulse dal contesto, dette sentenze offrirono, nella Germania d’altri dì, succulenti bocconi a stuoli e stuoli di uggiosi prozii: quei prozii, voglio dire, che s’empiono la bocca rammemorando, a ogni crocchio e brigata e non senza storpiature, autori di fama antica e solida, col sottinteso che gli autori che vennero dopo (e che mai hanno letto) siano moneta senza peso. Aspro nemico del prozio è il fighetto, cui lo snobismo vieta i campi nei quali il prozio aveva grufolato. A prozio schilleriano, antischilleriano fighetto! Ma il fighetto di oggi è il prozio di domani: cembali entrambi malsonanti.

Non scrissi pei prozii, non scrissi pei fighetti. Voglio un lettore curioso come un bimbo, umile come un assetato, saggio come un vegliardo cui ogni alba rechi letizia nuova. Per lui trascriverò quanto di Schiller ebbe a dire Hugo von Hofmannsthal: “Nessun tedesco possiede un pari dinamismo […]. La sua vita e la sua morte sono sorelle a quelle del torciere che stremato ha raggiunto la meta, e s’accascia a spirare trasfigurandosi in simbolo eterno. […] Le opere sue più che ad altro somigliano alle navi maestose, forti di bellezza, la cui essenza è il moto: navi di meta certa, che mai vagando a caso legano terra a terra nobilitando ogni luogo che toccano…” E si chiuda così!