Briganti. Non fu vera gloria
di
Mario Gaudio
Il brigantaggio è, senza dubbio, un fenomeno estremamente complesso, la cui trattazione non può certo esaurirsi nei limiti delle poche righe che seguiranno.
Tuttavia, cercherò di delineare alcune spigolature storiche utili ad inquadrare le cause che portarono le campagne del meridione d’Italia ad essere infestate da questa piaga criminosa.
Il primo dato da chiarire è di ordine cronologico: spesso, il termine “brigantaggio” è associato al movimento armato che terrorizzò le regioni del centro-sud subito dopo l’unificazione nazionale del 1861. Tale definizione, sebbene sia corretta, è oggettivamente incompleta: un’attenta analisi delle vicende storiche dimostra, infatti, che il brigantaggio esisteva ben prima della proclamazione dello stato unitario e, come giustamente rilevato da Indro Montanelli, costituiva una vera e propria problematica endemica nei territori del Regno delle Due Sicilie e degli Stati pontifici.[1]
I componenti delle bande brigantesche del periodo preunitario erano uomini datisi alla macchia per le ragioni più svariate. Al di là dei contesti socio-economici caratterizzati dalla miseria, dall’ignoranza, dalla rigidità dei regimi polizieschi e dalla mancanza di comunicazioni – elementi che potrebbero, almeno in teoria, rappresentare delle attenuanti dinanzi al tribunale della Storia −, si trattava di figure propense per natura al crimine e alla violenza, dedite ad assalti, ruberie, estorsioni, stupri, rapimenti e uccisioni e disinteressate verso qualsivoglia forma di lotta ispirata da valori politici o ideologici.
Ciononostante, come spesso accade nel corso degli eventi umani, quando le idee non hanno forza per imporsi, ci si dimentica del diritto e dei presupposti stessi della civiltà, ricorrendo alla spregevole alleanza con le figure più meschine e affrettandosi a presentarle agli occhi del mondo come portatrici di valori positivi e di libertà.
Fu esattamente questo il malsano principio che, per la prima volta, nel 1799, comportò l’utilizzo politico del movimento brigantesco. I Borbone − cacciati da Napoli in seguito all’arrivo delle truppe francesi del generale Championnet e alla proclamazione della Repubblica Partenopea da parte dei rivoltosi giacobini − si rifugiarono in Sicilia e affidarono il tentativo di restaurazione al cardinale Fabrizio Ruffo che, sbarcato a Punta Pezzo (nei pressi di Villa San Giovanni), raccolse sotto le insegne dell’Esercito della Santa Fede folle di ignoranti contadini senza terra, gruppi di pezzenti denominati “lazzaroni”, vagabondi e bande di sanguinari briganti a cui il porporato aveva promesso immunità, possibilità di saccheggio e condono generale per i delitti commessi in passato.
La variegata masnada sanfedista, al grido di “Viva Maria e Viva il Re!”, stroncò nel sangue l’esperienza della Repubblica Napoletana, riportando sul trono Ferdinando IV e restaurando l’ordine con una repressione feroce nei confronti di tutti coloro che si erano schierati a favore del municipalismo repubblicano filofrancese. Tra le vittime illustri, occorre ricordare almeno i nomi di Mario Pagano, Vincenzio Russo ed Eleonora de Fonseca Pimentel.
Qualche anno dopo, nel 1806, si ripropose un quadro politico alquanto simile a quello appena raccontato: il re Borbone fu costretto a rifugiarsi in Sicilia e Giuseppe Bonaparte, sostenuto dalle baionette francesi, divenne sovrano di Napoli. Così come era avvenuto in precedenza con il cardinale Ruffo, la famiglia regnante tentò di restaurare il proprio potere facendo affidamento sui sanguinari capibanda briganti. Pertanto, Michele Pezza – meglio conosciuto come fra’ Diavolo – sbarcò ad Amantea nel tentativo di sollevare le Calabrie ma, questa volta, l’impresa fallì.
Una spietata operazione repressiva fu messa in atto dal generale Charles Antoine Manhès e, per un periodo di tempo, la piaga del brigantaggio parve essere stata estirpata dalle regioni meridionali italiane.
Tuttavia, nel 1849, si verificò una recrudescenza del fenomeno brigantesco nel territorio delle tre Calabrie[2] e il governo dei Borbone affidò poteri straordinari al marchese Ferdinando Nunziante che, ad onor del vero, conseguì anche qualche brillante risultato.
Con l’unificazione nazionale, ci fu un ulteriore tentativo di sfruttare la piaga del brigantaggio per fini politici legittimisti. L’episodio si verificò nell’aprile del 1861, quando un piccolo esercito di fuorilegge si radunò nel bosco di Lagopesole – in Lucania – acclamando generale il brigante Carmine Crocco Donatelli. I banditi issarono la bandiera borbonica e si fregiarono della coccarda rossa. Questa operazione fu possibile grazie alle promesse dell’esautorato re delle Due Sicilie, alle benedizioni del Papa e alle esortazioni del comando francese, rappresentato da un misterioso avventuriero bretone di nome Langlois, personaggio di cui gli storici non sono ancora riusciti a ricostruire la biografia.
Qualche mese dopo, comparve sulla scena il generale spagnolo Josè Borjes, al quale il principe di Scilla Folco Ruffo aveva fatto pervenire, tramite il generale borbonico Tommaso Clary, l’ordine di preparare la sollevazione del Mezzogiorno al fine di favorire il ritorno sul trono di Francesco II.
Borjes sbarcò in Calabria, tra Bruzzano e Brancaleone, e concertò con il brigante Mittica un attacco a Platì, ma il piano fallì: il capobanda rimase ucciso in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine, mentre il militare riuscì a fuggire in Basilicata grazie all’aiuto di un agente inviato dal principe di Bisignano.
In seguito, in qualità di legittimo rappresentante del re Borbone, Borjes incontrò la banda di Carmine Crocco, ma i briganti si rifiutarono di prendere ordini ed essere inquadrati militarmente. Pertanto, all’alto ufficiale spagnolo non rimase che cercare rifugio nello Stato pontificio ma, nei pressi di Tagliacozzo (Abruzzo), fu sorpreso dai bersaglieri e fucilato dopo un processo sommario.
Con questa vicenda, si può considerare conclusa l’esperienza del cosiddetto brigantaggio politico, ovvero l’utilizzo a scopo legittimista delle squadracce brigantesche ad opera del vecchio regime delle Due Sicilie.
Con il brigantaggio postunitario si aprì, essenzialmente, una nuova fase. Il fenomeno fu inconsapevolmente alimentato da una serie di scelte politiche errate da parte di Casa Savoia e costituì, spesso, una valvola di sfogo per le popolazioni meridionali deluse dalle promesse mancate fatte, in precedenza, dai liberali piemontesi.
Molti ex garibaldini, insoddisfatti dalla non avvenuta ridistribuzione delle terre, andarono ad alimentare le file dei briganti. Ad essi si unirono numerosi soldati dell’esercito borbonico che, dopo la battaglia del Volturno e la resa di Gaeta, non furono trattenuti in servizio, ma congedati e dunque lasciati senza possibilità di reinserimento sociale. Ulteriore alimento al brigantaggio venne dai tanti giovani che rifiutarono la coscrizione obbligatoria e si diedero alla macchia.
Le masnade brigantesche tornarono ad infestare con inaudita violenza le campagne del Mezzogiorno, arrivando, in molti casi, ad assediare addirittura i borghi e a sterminare le guarnigioni della Guardia Nazionale poste a presidio dei centri abitati.
Con molto ritardo, la classe dirigente dell’Italia unita si rese conto della gravità del pericolo e la repressione nei confronti dei briganti e dei manutengoli – ovvero di coloro che per paura o per complicità fornivano rifugio, protezione, informazioni o viveri alle varie bande – fu spietata.
Alle azioni di contrasto del generale Ferdinando Pinelli, seguì l’invio di circa centomila uomini – quasi la metà dell’intero esercito nazionale – sotto la guida del generale Enrico Cialdini che, oltre ad approfondite perlustrazioni del territorio, ordinò la formazione di un cordone al confine con lo Stato pontificio – da cui provenivano armi, ordini e denaro – e l’espulsione di numerosi esponenti del clero – tra i quali il cardinale di Napoli, Riario Sforza – accusati di connivenze con i briganti.
Nel 1862, fu inviato in Calabria il maggiore Pietro Fumel, la cui azione repressiva nei confronti delle bande fu ancora più incisiva.
Infine, il 15 agosto 1863, il Parlamento approvò la legge Pica,[3] che dichiarò tutto il Meridione in «stato di brigantaggio» e trasferì le competenze giudiziarie dai tribunali ordinari a quelli militari.[4]
Alla fine del 1865, il brigantaggio poteva considerarsi totalmente debellato, sebbene ad un altissimo prezzo di sangue sia tra i briganti che tra le forze dell’ordine e la popolazione civile.
Estremamente dettagliate sono le descrizioni delle efferatezze commesse dalle squadracce brigantesche, riportate dalle cronache dell’epoca grazie all’opera di attenti osservatori come Vincenzo Padula di Acri.
Le bande si macchiarono dei crimini più atroci e non mancarono addirittura agghiaccianti episodi di cannibalismo. Il brigante Coppa, ad esempio, era solito bere il sangue delle sue vittime,[5] mentre Norman Douglas, che visitò la Calabria a più riprese tra il 1907 e il 1911, condensò la descrizione del brigante Mammone in questi termini: «[…] un mostro antropofago, che si vantava di avere ucciso personalmente 455 individui con le più crudeli raffinatezze e che portava alla cintura il cranio di una delle sue vittime per bervi sangue umano ai pasti».[6]
Per completezza, è bene ricordare i nomi di alcuni tra i più sanguinari esponenti del movimento brigantesco che infestò le campagne del centro-sud. Famosi per la loro brutalità furono: don Ciro Annichiarico (un ex prete divenuto brigante), Pietro Bianchi, Pietro Corea, Francatrippa, Antonio Franco, Malacarne, Pietro Monaco, Pasquale Perrelli, Michele Pezza detto Fra’ Diavolo, Schiavone, Nicola Somma detto Ninco Nanco, Domenico Straface detto Palma e Odoardo Trapasso.
Una nota a parte meritano, invece, le brigantesse, donne di estremo fascino – come emerge dalle fotografie dell’epoca – ma di altrettanta ferocia. Tra queste si ricordano: Michelina De Cesare, Maria Lucia Nella (compagna di Ninco Nanco), Maria Oliverio detta Ciccilla (moglie di Pietro Monaco), Filomena Pennacchio (compagna di Schiavone), Maria Giovanna Titto (compagna di Carmine Crocco) e Giuseppina Vitale (compagna di Sacchitello).
In conclusione, benché molto spesso l’immagine del brigante sia stata trasfigurata e resa romantica dalla letteratura, la Storia ci mette di fronte ad una realtà diversa, presentandoci individui violenti, a volte assetati di sangue, pronti ad uccidere uomini e donne che vivevano nelle loro medesime condizioni di miseria.
Montanelli definiva il brigantaggio «rozza e brutale espressione» delle plebi più affamate,[7] mentre Gramsci, ne La questione meridionale, demoliva la portata sociale del ruolo del brigante che, nella sua lucida visione, diventava «non un rivoluzionario», ma «un assassino dei “signori”, non un lottatore […]».[8]
Oggigiorno, una certa storiografia confusa e retriva, di marca neoborbonica, prende piede con tratti revisionistici e sacrifica sull’altare dell’ideologia la verità storica e l’oggettività dei fatti, tendendo a rivalutare la figura del brigante e attribuendogli peculiarità quasi eroiche.
Nonostante ciò, un’analisi attenta ci porta a giudicare i briganti come vittime e carnefici, allo stesso tempo, degli assurdi ingranaggi delle vicende umane: sebbene figli della miseria, dell’ignoranza e della superstizione, hanno fatto ricorso all’unico linguaggio perdente della Storia, quello del sangue, e da tale atteggiamento non può che scaturire sul fenomeno del brigantaggio e sui suoi protagonisti un bilancio in chiaroscuro in cui le molte ombre hanno un peso inevitabilmente maggiore rispetto alle poche luci.
Insomma, salvo alcune esigue eccezioni, i briganti furono efferati criminali che il buonsenso del giudizio storico, scevro da qualsivoglia condizionamento, non può che condannare.
[1] Cfr. Indro Montanelli, Storia d’Italia. L’Italia dei notabili (1861-1900), RCS Libri S.p.A., Milano, 2003 (1973), p. 60.
[2] Nel 1816, il nuovo assetto amministrativo borbonico previde la suddivisione della Calabria in tre province: Citeriore con capoluogo Cosenza; Ulteriore Prima con capoluogo Reggio; Ulteriore Seconda con capoluogo Catanzaro.
[3] Legge proposta dal deputato abruzzese Giuseppe Pica.
[4] Cfr. Indro Montanelli, Storia d’Italia. L’Italia dei notabili (1861-1900), op. cit., p. 70.
[5] Cfr. Abele De Blasio, Altre storie di briganti. Prove di antropologia criminale, Capone Editore/Edizioni del Grifo, Lecce, s.d., p. 84.
[6] Norman Douglas, Vecchia Calabria, traduzione di Grazia Lanzillo e Lidia Lax, Giunti, Firenze, 1992, p. 320.
[7] Cfr. Indro Montanelli, Storia d’Italia. L’Italia dei notabili (1861-1900), op. cit., p. 61.
[8] Antonio Gramsci, La questione meridionale, a cura di Franco De Felice e Valentino Parlato, Roma, Editori Riuniti, 1966, p. 13, n. 1.