“Mille proverbi a Terranova da Sibari”, pagine di ricordi e di saggezza
di
Mario Gaudio
Un’antichissima leggenda ebraica narra che l’essere umano, dal momento del concepimento nel grembo materno sino alla sua venuta alla luce, sia dotato di onniscienza: dispone, cioè, di tutta la sapienza del mondo in quanto l’alito di vita, ricevuto in dono, discende direttamente dall’alto dei cieli. Al momento della nascita − e, dunque, dell’ingresso nel mondo − questa straordinaria capacità viene meno, lasciando l’Uomo nella necessità di apprendere e di acquisire conoscenze tramite un faticoso quanto essenziale percorso a ritroso in grado di richiamare alla memoria un frammento di quella portentosa sapienza originaria.
È evidente in questa credenza rabbinica la stretta correlazione tra conoscenza e memoria, binomio inscindibile anche per la tradizione occidentale: non a caso, Socrate fu considerato l’inventore dell’arte maieutica attraverso cui riusciva a condurre il dialogante a prendere coscienza di determinate verità che, in realtà, albergavano già nel proprio mondo interiore.
Il fortunato connubio memoria e conoscenza domina, come tema centrale, la nuova fatica letteraria di Eduardo Apa: un lavoro multiforme che parla di antico, sa di nuovo e contiene addirittura tratti avveniristici.
Dopo una lunga e riuscita esperienza nel campo della narrazione, della ricerca storica e artistica, l’autore ha deciso di cimentarsi con una nuova sfida intellettuale, dando vita al volume intitolato Mille proverbi a Terranova da Sibari, una certosina raccolta di massime – tanto della tradizione locale, quanto di quella nazionale – in uso nella sua ridente cittadina.
La genesi dell’opera, a discapito del brillante risultato raggiunto, è quasi casuale: Apa, nella Premessa, confessa candidamente di aver iniziato a raccogliere proverbi con lo spirito rilassato di chi compila le caselle di un cruciverba. Tuttavia, il susseguirsi dei motti, come era prevedibile, ha alimentato l’interesse di un intellettuale dinamico, che non poteva rimanere indifferente dinanzi ad una materia così stimolante per chi, da sempre, ha cercato di far emergere, attraverso i propri scritti, l’essenza schietta dei costumi dell’amato territorio natìo.
Ecco, pertanto, che massima dopo massima, riemerge il ricordo dell’infanzia, di episodi, strade, volti, voci e azioni che non esistono più, in quanto logorati dal tempo, ma le cui tracce continuano a vivere e fermentare nella memoria e negli insegnamenti.
Mille proverbi a Terranova da Sibari diventa per il lettore una miniera di inesauribile conoscenza del mondo che ci ha preceduto e del bagaglio di esperienze donateci in eredità. Il genere stesso del proverbio, per definizione, si presta agevolmente a tale scopo, cristallizzando il tempo e custodendo l’essenziale.
Alle spalle del lavoro di Apa, vive un’ampia tradizione letteraria costituita da sillogi di proverbi capaci di attraversare con coraggio molte epoche e altrettante latitudini. Nel primo millennio a.C., il faraone Amenemope raccolse detti di saggezza dei suoi contemporanei (ne ricordiamo, per la cronaca, uno estremamente celebre che recita: «Meglio il pane con un cuore felice, che la ricchezza con l’afflizione»); secoli dopo, la Bibbia stessa annoverò tra i suoi testi costituenti il libro dei Proverbi, attribuito a Salomone, il re sapiente per eccellenza, a cui la Sacra Scrittura assegna la paternità di ben tremila proverbi (cfr. 1Re 5, 12).
In epoche a noi più vicine, anche Erasmo da Rotterdam (1466/69-1536) subì il fascino dei proverbi e compilò un’opera intitolata Adagia, condensando tra le sue pagine le massime di saggezza del mondo greco e latino.
La produzione letteraria successiva non fu esente dall’utilizzo di motti di sapienza popolare che, molto spesso, facevano capolino tra le righe di scritti di ben altro tenore: ricordiamo, a tal proposito, almeno le inserzioni proverbiali presenti nella Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena (1470-1520), nel Cortegiano di Baldassar Castiglione (1478-1529) e nelle gustose opere di Pietro Aretino (1492-1556).
Da questo excursus emerge con chiarezza l’antichità del filone letterario a cui appartiene il libro di Apa ma, nello stesso tempo, non possiamo esimerci dal riconoscere al nostro autore una certa originalità che si concretizza nel coraggio di presentare il vigore di insegnamenti popolari – da lui vissuti in prima persona – ad una società sempre meno attenta, incapace di assaporare il valore del tempo e priva di adeguati spazi di meditazione.
Mille proverbi a Terranova da Sibari abbraccia la vita del tempo che fu in tutte le sue sfaccettature: attraverso i proverbi, rivivono i rapporti umani – nello specifico, quelli non sempre facili tra parenti e quelli spinosi ma interessanti tra uomini e donne −, riprendono corpo lucide considerazioni sulla fortuna, l’amore, la giustizia, la risolutezza, la prepotenza e il legame tra Dio e gli uomini. Ogni sezione del libro ci presenta uno spaccato di vita che ha come denominatore comune il fondamento agreste di una società in cui il fluire dei giorni è scandito dall’amore viscerale per la terra e dalle faticose azioni utili a farla fruttificare (nella fattispecie: la vendemmia, la potatura, la semina e la mietitura).
Ne affiora un quadro in cui lunghe serate, trascorse alla tremolante luce delle candele o dei lumi ad olio, si alternano a paesaggi idilliaci in cui una Natura provvida e armoniosa fa da sfondo a segni inconfondibili che la sapienza popolare, attraverso i proverbi, interpretava per pronosticare le condizioni atmosferiche a breve termine.
Gli eventi climatici, previsti per mezzo di particolari segni, rappresentano, nella società descritta da Apa, la salvezza o la distruzione di un raccolto, determinando, di conseguenza, il benestare o la malasorte di una famiglia.
Se queste pagine ricordano con vivacità la durezza e la precarietà della vita contadina, l’attento lettore non può che scorgervi in filigrana quella atavica sapienza che già era stata racchiusa ne Le opere e i giorni di Esiodo di Ascra (VIII secolo a.C.), nei Fenomeni di Aràto di Soli (310 a.C.) e nelle delicate pagine delle Georgiche virgiliane.
Nella società di Apa, come in quella dei classici appena citati, campeggia un legame simpatetico con la terra e quanto in essa contenuto, un rapporto filiale tra l’Uomo e l’elemento naturale che conduce inevitabilmente, quasi per una sorta di arcana proprietà transitiva, ad una fraternità tra ogni singolo uomo e i propri simili.
I proverbi raccolti hanno una funzione fortemente rasserenante e la loro ambivalenza − o, molto spesso, la difficoltà interpretativa − li rende adatti ad ogni circostanza, per quanto avversa possa essere. Il rumore di fondo è comunque un costante invito alla moderazione, a quell’aurea mediocritas di oraziana memoria di cui tanto necessiterebbe la nostra epoca convulsa.
Alla valenza storica e didascalica, il libro di Apa affianca anche un forte insegnamento linguistico. I proverbi sono riportati fedelmente in dialetto terranovese – con relativa traduzione e spiegazione – al fine di far assaporare meglio l’atmosfera in cui queste perle di saggezza venivano pronunciate. Tuttavia, l’uso del dialetto è indubbiamente un efficace strumento per valorizzare l’antica parlata dei nostri avi, oggi sempre meno conosciuta in quanto sopraffatta da un massificante italiano standard regolamentato dalla televisione e dagli altri moderni mezzi di comunicazione di massa.
La lettura dell’opera di Apa risulta avvincente, istruttiva e coraggiosa ma – è bene precisare – che da questo piccolo mondo antico, fatto di terra e semplicità, non possiamo che limitarci a trarre insegnamenti e valori. Una esegesi errata potrebbe indurre a pensare alla necessità di un ritorno a quel genere di società contadina marchiata dalla frugalità, ma è evidente l’impossibilità di una tale prospettiva dacché occorre ammettere, senza ipocriti infingimenti, che, benché afflitto da enormi problemi, l’Uomo contemporaneo non può prescindere dalle imponenti innovazioni in campo tecnologico, dalle evoluzioni della medicina e dagli elementi caratterizzanti la moderna globalizzazione.
Del resto, lo stesso Apa, per evitare antistorici desideri di ritorno al passato, dichiara di avere come obbiettivo del suo libro semplicemente il «prospettare le conoscenze e le esperienze fatte nell’arco di una lunga vita».
Ne affiora un messaggio di straordinario equilibrio, un invito a contemperare − senza stravolgimenti − il tempo presente con i valori di solidarietà, condivisione, semplicità e laboriosità, che furono il cardine della generazione precedente.
È proprio a partire da questa armonizzazione tra antico e moderno che Mille proverbi a Terranova da Sibari presenta, come dicevamo all’inizio, addirittura dei tratti avveniristici.
Negli anni Novanta del secolo scorso, Chris Langton – eminente fisico dell’Istituto di Santa Fe, nel New Mexico – elaborò una teoria, applicabile ai sistemi complessi, nota con il termine di “margine del caos”. Langton notò che sistemi molto grandi – quali una popolazione, una grossa società finanziaria, un numeroso branco di animali, l’insieme dei neuroni cerebrali ecc. – prosperano soltanto in un punto-limite definito “margine del caos” in cui convivono indistintamente vecchio e nuovo, stasi e movimento, conservazione e innovazione. Insomma, avvicinarsi troppo al margine significherebbe cadere nell’anarchia, ritrarsene eccessivamente implicherebbe il più rigido totalitarismo: ne consegue che «l’eccessivo mutamento diventa letale quanto l’eccessivo immobilismo».
La ricetta vincente è, pertanto, quella della saggia moderazione che, applicata al nostro caso, ci induce a riflettere sul fatto che, sebbene tecnologizzati e veloci, abbiamo disperato bisogno degli ideali di semplicità, racchiusi da Apa nei suoi proverbi, per poter ritornare a prosperare.