24 Dicembre 2024
Arbëria

In margine all’antologia santoriana

di

Mario Gaudio

Ogni antologia sconta un gravoso peccato originale legato alla insidiosa e duplice natura ‒ includente e limitante allo stesso tempo ‒ che caratterizza per definizione questo particolare genere letterario.

Se da un lato il curatore si prodiga nell’attenta raccolta di testi ritenuti significativi, dall’altro procede alla necessaria e problematica espunzione di numerosi scritti che ‒ a torto o a ragione ‒ vengono confinati nelle retrovie e, pertanto, non esposti alla prima linea del contatto diretto con il lettore.

Anche il pregevole lavoro di Vincenzo Belmonte si adegua all’ineluttabile legge della selezione antologica ma, cosa assolutamente rilevante, riesce a tracciare ‒ circoscrivendolo in un modesto numero di pagine ‒ un ritratto chiaro e pressoché completo della poliedricità di Francesco Antonio Santori (1819-1894).

Lo scrittore arbëresh, originario di Santa Caterina Albanese, benché chiacchierato e spesso sottovalutato, ha avuto l’indiscutibile merito di introdurre nel fumoso panorama culturale dell’Arbëria il genere del romanzo e quello del dramma con risultati apprezzabili da un punto di vista stilistico e critico.

Ciò che emerge dalla solerte raccolta di Belmonte è l’immagine di un Santori poligrafo, in grado di spaziare con disinvoltura tra forme letterarie profondamente diverse e distanti tra loro, ma unite da un comune denominatore: l’uso di un linguaggio essenziale, non retorico e fortemente proteso verso la costruzione di personaggi significativi e gradevoli suggestioni.

Nell’unità dedicata alla satira, si riportano i versi di Mjekërari in cui Santori descrive con ricercata leggerezza i gesti di un indelicato barbiere che, a tratti, sembra assumere le sembianze di un ben più temibile boia impegnato nella sua mortifera professione. L’architettura poetica ariosa e il tono vagamente pungente troveranno, parecchi anni dopo, un degno termine di paragone nell’estro satirico di Mishtarvet e Shën Mitrit (1941), componimento nel quale Salvatore Braile (1872-1961) metteva alla berlina i macellai di San Demetrio Corone accusati, a suo dire, di riservare al popolo scadenti frattaglie e miseri brandelli di carne.

Santori, sacerdote di rito latino, utilizzò largamente la tematica religiosa nella sua ampia produzione, sebbene con finalità ed esiti diversi.

Nel brano Delëmereza (La pastorella), tratto da Krështeu i shëjtëruorë (Il Cristiano santificato), si racconta del dono di un modesto serto di fiori che un’umile fanciulla porge alla Madonna, ma il tutto è espresso per mezzo di un fare poetico edulcorato, quasi querulo, che fu tipico di tanti ecclesiastici ottocenteschi e che ricorda molto da vicino i semplici versi giovanili di don Ferdinando Guaglianone (1843-1927), intellettuale conservatore originario di Spezzano Albanese.

Di ben altro spessore appaiono Valtimi i Shën Maries (Il compianto della Vergine) e la supplica Shën Maries të sëmurmëvet (Alla Madonna della Salute), contenuti nel già citato Il Cristiano santificato. Mentre nel primo componimento il pianto di Maria si fonde in un unico, straziante lamento con quello della terra condensandosi nello struggente verso «Vivo, se vivo, di pianto / fino a seccare i miei occhi», nel secondo Santori racconta quasi visivamente l’inizio di una subdola melanconia che si impossessa del suo animo: «Il cuore scoperse e legò / la mente rapì, / la ragione inceppò / sì da stordire il pensiero. / Da allora nel mondo / non ebbi riposo. Mi trovo / nel fuoco, nel ghiaccio, / non so a chi somiglio».

Molto interessante risulta essere un insieme di Kalimere ‒ che riprendono i tradizionali canti eseguiti nelle strade e nelle case in particolari contesti paraliturgici ‒ in cui il letterato arbëresh trasfigura poeticamente una serie di noti episodi evangelici quali la liberazione dell’indemoniato di Gerasa, la tempesta sedata e la resurrezione della figlia di Giairo.

Alla stessa sezione possono essere ascritti i versi del Kënëka e Pësuomevet (Canto della Passione) di cui sono riportati i brani relativi alla via crucis e al suicidio di Giuda. L’autore non esita ad utilizzare in questo contesto immagini cruente e cariche di tensione emotiva che ben si accordano con la drammaticità dei momenti descritti.

Una nota a parte meritano le Rapsodie in cui il Santori non si limita a raccogliere antichi canti popolari dell’Arbëria ‒ come fecero egregiamente Nicolò Figlia di Mezzojuso, il Camarda, De Rada e lo Schirò ‒, ma interviene direttamente di suo pugno rimaneggiando e, a volte, riscrivendo i testi.

L’antologia si conclude con alcuni brani tratti da Neomènia, Clementina, Alessio Ducagino e Miloscino, opere che costituiscono il corpus teatrale santoriano del quale l’Emira rappresenta l’indubbio capolavoro e in cui si mescolano armoniosamente la tematica amorosa, quella storica e interessanti note di costume.

Il lavoro di Belmonte ha dunque il pregio di far emergere in toto la versatilità di uno scrittore ancora poco conosciuto il cui approfondimento potrà sicuramente aprire nuove e stimolanti piste di studio per gli appassionati della letteratura d’Arbëria.