Don Francesco Gullo e il disilluso coraggio della realtà
di
Mario Gaudio
«Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt» (“Sono le lacrime delle cose e le cose mortali toccano la mente”).
Con queste parole Virgilio (Eneide I, 462) condensò in forma poetica il dolore nascosto dietro le vicissitudini del mondo e il subdolo pianto di cui è innegabilmente intrisa la Storia, nonostante l’Uomo tenti, da sempre, di insabbiare, scostare, dimenticare o, addirittura, giustificare tale cruda realtà attraverso consolanti e complesse architetture religiose o filosofiche.
Don Francesco Gullo (Spezzano Albanese 1886-1983) riprende parte del già citato verso virgiliano per intitolare una interessante raccolta poetica pubblicata nell’ormai lontano 1974.
L’Arciprete, pur sostenuto dalla fede pragmatica e semplice tipica delle zone rurali ‒ lontano pertanto da qualsivoglia diatriba teologica o speculazione dottrinaria ‒, infonde ai suoi versi un vigoroso realismo che lo conduce a toccare con mano le piaghe sanguinanti dell’ambiente contadino meridionale in mezzo al quale compie la sua missione.
Aleggiano tra le pagine le sofferenze legate alla povertà e all’emigrazione ‒ «Per me è primavera piena, / quando i miei paesani / non vanno più a cercar / lavoro e pane, altrove, / ma restan, dove sono nati, / a lavorare e a morire…» (Per me è primavera) ‒, così come campeggia il ricordo commosso e straziante di tanti giovani ‒ tra cui Salvatore, il fratello del poeta ‒ travolti dalla furia bellica sul Carso in occasione del primo conflitto mondiale.
Questi drammi vengono finemente trasfigurati dalla poesia di Gullo e santificano inconsapevolmente i sacrifici di migliaia di persone i cui nomi furono ignorati dai libri di storia: «Quanti santi, quanti martiri / senza panegirico, che i panegirici / distaccano l’uomo dall’uomo / e l’uomo da Dio!…» (I° novembre. I santi).
Tutto ciò genera pianto e, non a caso, le lacrime racchiudono gli angusti confini dell’esistenza stessa: «La lagrima prima, saluto alla vita, / che nasce, la lagrima ultima, / saluto alla vita, che muore. / Quanto è breve il tratto / tra la culla e la tomba… / È una lagrima!…» (Pianto d’un uomo).
Ciononostante, la granitica tempra morale del Gullo non si piega e se nella vita quotidiana cerca di portare sollievo al prossimo con la fondazione della Cassa Rurale e Artigiana di Spezzano Albanese (1919), nel campo poetico, ricordando che «Non è tomba, ma culla / di vita latente, il passato» (Il pettirosso), rievoca i fasti della gloriosa Magna Grecia e di Roma le cui vestigia sono ancora visibili: «[…] case e casupole, i cui muri scoperti / mostrano il mattone romano / e la pietra quadrata greca, / raccattati, qua e là, per i campi» (Le mie colline).
Non mancano frequenti riferimenti ad ancestrali tradizioni agresti ‒ «Ogni anno, dall’ulivo vecchio / si staccavano tre rami, / da essere benedetti / nella festa delle Palme. / Uno si figgeva nel vigneto, / l’altro nel terreno, a grano seminato / l’altro nell’uliveto stesso, / perché tutti e tre i campi / benedetti fossero e fecondi…» (Ulivo vecchio) ‒ e una serie di gradevoli descrizioni paesaggistiche e precise connotazioni geografiche che si trasformano, ben presto, in una sorta di variegato percorso dell’anima.
La natura cantata da Gullo assume, molto spesso, tratti sensuali e paganeggianti, in grado di richiamare le dolcezze dell’antica Sibari, a cui si fa più volte riferimento, e di rimandare alla cultura classica che caratterizzò la formazione giovanile del poeta.
I versi divengono quasi accorata invocazione e l’uso spropositato dell’anafora indica la volontà di stimolare costantemente l’attenzione del lettore su temi ormai avulsi dal suo orizzonte.
Insomma, in Gullo antico e nuovo si fondono creando uno straordinario e delicato equilibrio tra realtà e coraggiosa disillusione.
«Quisque suos patimur manis […]» sentenziava il solito Virgilio nel VI libro dell’Eneide (v. 743): «Ognuno sconta il suo demone». Anche don Gullo combatteva energicamente contro il proprio.