24 Dicembre 2024
LetteraturaSaggistica

La tragedia dell’Oncle Joseph: vicende storiche e risvolti letterari

di

Mario Gaudio

I fenomeni migratori hanno da sempre caratterizzato la storia dell’umanità consentendo, di fatto, la sopravvivenza di molti popoli e la mistione di culture e tradizioni differenti. Tuttavia, ci furono momenti storici e aree geografiche in cui gli spostamenti si verificarono con maggiore intensità e riguardarono numeri alquanto significativi dal punto di vista statistico.

Nel periodo preunitario, ad esempio, gli italiani − notoriamente “santi, poeti e navigatori” − furono interessati da movimenti migratori intensi che crebbero in misura esponenziale dopo l’unificazione nazionale del 1861. In un primo momento, le rotte predilette furono quelle mediterranee (non è un caso che «[…] sino al 1871, l’italiano era una delle lingue usate ufficialmente dalle poste egiziane»)[1] ma, ben presto, i nostri connazionali mutarono radicalmente indirizzo preferendo le nazioni europee (in particolare la Francia) e, a partire dal 1880, le ambite terre di Argentina, Brasile e Stati Uniti.

Se l’emigrazione fu, assieme alla colonizzazione delle lontane terre d’Africa, una possente valvola di sfogo per il malumore serpeggiante tra le masse contadine meridionali, essa rappresentò, allo stesso tempo, la causa di gravissimi incidenti in cui persero la vita torme di malfamati in cerca di un futuro migliore. Uno dei più catastrofici e poco conosciuti sinistri marittimi si verificò nel 1880 nelle acque del golfo de La Spezia.

Nonostante le sommarie − e spesso fantasiose − versioni che circolarono sin da principio,[2] la consultazione di documenti originali dell’epoca ci consente una ricostruzione attendibile dei fatti capace di far emergere tutta la drammaticità dell’evento.

Alle tre del mattino del 24 novembre, tra l’Isola del Tino e quella di Palmaria, la prua del bastimento italiano Ortigia colpì violentemente la fiancata della nave francese Oncle Joseph squarciandola in due tronconi e provocandone l’affondamento in meno di otto minuti.

Subito dopo l’urto, la stiva fu invasa dall’acqua e l’immenso vuoto, causato dall’inabissamento del piroscafo speronato, trascinò con sé 229 passeggeri e 10 membri dell’equipaggio.[3]

Una rappresentazione della tragedia dell’Oncle Joseph (immagine tratta dal Web)

La notizia della sciagura fu immediatamente annunziata da un telegramma dell’Agenzia Stefani[4] suscitando profondo cordoglio sull’intero territorio nazionale.

I primi soccorsi furono prestati dai marinai dell’Ortigia che calarono in mare le scialuppe e lanciarono salvagenti rimanendo per diverse ore sul luogo dell’incidente. A tal proposito, il capitano Stefano Paratore, comandante del bastimento, ebbe modo di dichiarare: «Abbiamo salvato il maggior numero di persone possibile, dopo un’ora non abbiamo sentito più gridare, abbiamo continuato a remare per vedere se c’erano altri sopravvissuti. Siamo rimasti sul posto per quattro ore. L’Ortigia aveva tutte le luci accese, mentre l’Oncle Joseph aveva solo la sua luce bianca sull’albero».[5]

Subito dopo, il piroscafo italiano, alquanto malconcio, fece rotta verso Livorno dove, immesso nel bacino di carenaggio del cantiere Orlando, ricevette le opportune riparazioni.

L’inchiesta giudiziaria, che si aprì poche ore dopo l’incidente, rese noti interessanti dettagli per la ricostruzione della vicenda. Si accertò che l’Oncle Joseph, di proprietà della compagnia transalpina Valery, aveva iniziato il suo viaggio da Napoli e, dopo brevi soste in alcuni porti del settentrione, avrebbe dovuto far scalo a Genova, per poi oltrepassare lo Stretto di Gibilterra e affrontare la traversata dell’Atlantico sino a Buenos Aires. Il bastimento trasportava un carico di circa 800 tonnellate di mercanzie, 264 passeggeri e 33 uomini d’equipaggio.[6] I viaggiatori erano quasi tutti meridionali – in gran parte calabresi e molisani – che avevano deciso di lasciare le terre natie in cerca di fortuna. Al rovinoso incidente sopravvissero soltanto 35 emigranti e 23 marinai, mentre tra le vittime ci furono anche il capitano Lacombe, alcuni uomini che erano stati in servizio su un mercantile e che cercavano di raggiungere Genova per recarsi da lì ai propri paesi, un gruppo di marinai austriaci che rimpatriavano e 8 emigranti arbëreshë provenienti da Spezzano Albanese.[7]

La storia dell’Ortigia merita, invece, una trattazione sicuramente più approfondita. La nave, battente bandiera italiana, apparteneva alla compagnia di navigazione siciliana Florio[8] e, sin dal suo varo, aveva provocato non pochi problemi. Costruita a Livorno, presso i cantieri di Luigi Orlando, per conto della società “La Trinacria” di Palermo, fu completata nel 1873 e, immediatamente, i committenti dichiararono bancarotta. Il piroscafo, con le sue 1854 tonnellate di stazza, fu noleggiato pertanto dalla Florio e si rese protagonista di tutta una serie di incidenti sia in fase di navigazione che di manovra portuale.[9]

Il 24 novembre 1880 l’Ortigia, salpata da Genova e diretta a Napoli con uno scalo intermedio a Livorno, incontrò tragicamente sulla propria rotta l’Oncle Joseph provocando, sebbene le condizioni del mare fossero abbastanza buone,[10] la fatale collisione. Al comando del bastimento italiano vi era il capitano Stefano Paratore e con lui viaggiavano 43 membri dell’equipaggio e 36 passeggeri rimasti tutti illesi dopo l’incidente.

Tuttavia, il destino infausto dell’Ortigia si sarebbe manifestato anche in altre drammatiche circostanze: nel 1885 la nave si scontrò con il battello francese Martignan con un bilancio di 12 morti; nel 1890 l’incidente avvenne con un bastimento norvegese e i morti furono 5; il 21 luglio 1895, ancora una volta nel golfo de La Spezia, il piroscafo fece affondare – in appena tre minuti – la Maria P. uccidendo 144 persone.[11]

Insomma, sebbene dopo ogni sinistro la compagnia Florio provvedesse a cambiare il comandante e l’intero equipaggio, la scia dei morti seminati in mare dall’Ortigia diventava sempre più consistente, tanto da far circolare, tra i marinai più superstiziosi, l’idea che una oscura maledizione gravasse sul bastimento.

La vicenda giudiziaria, relativa alle responsabilità dell’affondamento dell’Oncle Joseph, si concretizzò in una serie di scontri tra i tribunali italiani e quelli francesi circa la giurisdizione di competenza, dando origine addirittura ad un apposito studio di giurisprudenza marittima condensato nel volume di Giulio Cesare Buzzati intitolato L’urto di navi in mare: studio di diritto internazionale privato.[12]

Senza inoltrarci nel ginepraio di sentenze, ricorsi, accuse e risarcimenti si può cercare di sintetizzare l’accaduto attraverso le testimonianze del capitano in seconda dell’Oncle Joseph (Felice Perricchi) e del nostromo Renucci, entrambi sopravvissuti alla sciagura. Quest’ultimo, in una intervista, «accusò la nave Ortigia di non aver segnalato con il colore rosso delle luci convenzionali la posizione e il pericolo imminente, in conformità dei regolamenti internazionali vigenti».[13]

Un caso molto singolare riguardò uno dei superstiti del naufragio che fu ripescato in mare dopo circa 52 ore. Il piroscafo Marie Louise, della compagnia Fraissinet, proveniente da Marsiglia, giunto nei pressi di Capo Noli rinvenne una serie di oggetti che, trasportati dalla corrente, galleggiavano sulle onde. Il capitano Parangue diede l’ordine di effettuare una ricognizione e, aggrappato ad una tavola, fu notato un individuo di probabile nazionalità polacca che, portato a bordo, raccontò di essere scampato all’affondamento dell’Oncle Joseph.[14]

Il disastro marittimo impressionò particolarmente l’opinione pubblica italiana che, forse anche a causa di queste morti, iniziò a prendere coscienza del doloroso tema dell’emigrazione. Non a caso, a distanza di mesi, si organizzarono iniziative a sostegno dei sopravvissuti e delle famiglie degli annegati. Tra queste lodevoli manifestazioni meritano di essere ricordate almeno la costituzione del comitato livornese (che raccolse e donò agli sventurati dei sussidi dell’ordine di diverse migliaia di lire)[15] e una rappresentazione di beneficenza del Trovatore − presso il teatro Costanzi di Roma − a cui parteciparono il tenore Rossetti, il baritono Ciolli, il basso Fagiuoli e l’orchestra del teatro Apollo.[16]

La sciagura marittima non lasciò indifferente neppure il mondo della cultura e, in proposito, l’umanista e poligrafo don Ferdinando Guaglianone (1843-1927), originario di Spezzano Albanese, ne fece motivo di canto poetico in un componimento intitolato I naufraghi dell’Oncle Joseph, pubblicato a Napoli nel 1881.

In 221 versi (endecasillabi e settenari), carichi di pathos e di abilità metrica, il letterato condensa il sinistro marittimo – nel quale, come accennavamo, trovarono la morte otto suoi compaesani – attraverso la giustapposizione di una serie di piccoli quadri poetici. Il percorso inizia con l’appello che l’autore rivolge ad un non meglio identificato amico, affinché non si lasci corrompere dalla «funesta sete» dell’oro e dal desiderio di espatriare. Seguono la descrizione delle speranze e dei desideri di fortuna e di ritorno dei poveri emigranti e l’elogio di Napoli − «incantevol città delle sirene» − che non riuscì a trattenere, con la bellezza dei paesaggi e la mitezza del suo clima, quegli sventurati che di lì a breve si sarebbero imbarcati per il loro ultimo viaggio.

Guaglianone prosegue riportando i reciproci giuramenti di sostegno e amicizia tra i passeggeri e cantando la malinconia serale capace di attanagliare il cuore, richiamare alla mente il tetto paterno e cancellare, d’un tratto, la baldanza del giorno della partenza. Quasi con una sorta di climax tematico, vibrante di tensione, si passa al racconto dell’urto fatale e del conseguente affondamento.

Il tutto è reso ancora più drammatico dalla vicenda di due ragazzi, congiunti in matrimonio poco prima di salpare dalla città partenopea, che trovarono la morte nelle acque liguri. Struggenti e delicati sono i versi con cui il poeta canta lo sforzo titanico del giovane marito che tenta – invano − di strappare alle onde la sua consorte: «[…] Né un astro benigno / Rischiarò le tue lotte, / Avvolte già dalla funerea notte, / Onde, o sposo infelice, al mar cercavi / Strappare al mar colei che un santo giuro / Di Dio presso all’altare / Testé rendeati invidïata sposa. / Invan per lei, per te lottasti, e il mare / Ambo inghiottì […]». [17]

È doveroso, a questo punto, formulare alcune considerazioni critiche. In primis si può agilmente notare la struttura circolare del componimento: Guaglianone inizia col distogliere l’amico dall’idea della partenza e termina, praticamente, allo stesso modo. Compie quasi una sorta di paesana Odissea tematica in chiave negativa: dal borgo natio (Spezzano Albanese/Itaca) si prospettano le seduzioni e i pericoli del viaggio (una peregrinatio mortale, a differenza di quella di Ulisse), affinché si eviti un’avventura destinata a condurre allo stesso luogo della partenza (gli emigranti promettono il ritorno al tetto paterno dopo essersi arricchiti e, del resto, anche Odisseo, dopo venti lunghi anni di guerre e avventure, e dopo aver acquisito molteplici esperienze, si ritrova sulla sua petrosa isola, nel luogo in cui tutto ebbe inizio).

In secundis emerge con chiarezza la visione reazionaria che accompagnò Guaglianone per tutta la vita. In effetti, lo scrittore non riesce a giustificare il fenomeno migratorio come frutto della necessità e del malessere, ma lo collega all’avidità e al desiderio insano di ricchezze. Ne consegue anche una ristrettezza di mentalità – strana per un uomo vissuto per diversi anni nella vivacità dell’ambiente napoletano − che impedisce all’autore di comprendere i benefici di “ritorno” delle migrazioni, ovvero il flusso delle rimesse, provenienti dall’estero, che favorirono efficacemente l’economia nazionale.

In terzo luogo è da rilevare nei versi de I naufraghi dell’Oncle Joseph un atteggiamento di querulo sentimentalismo – concentrato, in particolar modo, su un attaccamento quasi patologico nei confronti della figura materna − che troverà il suo apogeo nel pessimismo e nella tristezza delle pagine di Cari e mesti ricordi!, opera licenziata nel 1890.

In ultima analisi, la tragedia di questo “Titanic dei poveri” trovò giusta risonanza nei versi del Guaglianone, ma l’estrema sensibilità dell’autore e il suo distacco dalla realtà impedirono al poemetto di raggiungere mete indubbiamente più meritorie.

In memoria di coloro che perirono nel disastro dell’Oncle Joseph…

[1] Sergio Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, Longanesi – Il Giornale, Milano, 1998, p. 137.

[2] A tal proposito, è bene ricordare che non mancarono maldestre ipotesi – non suffragate da prove – che collocarono l’affondamento dell’Oncle Joseph presso il porto di Siracusa o, addirittura, al largo della costa argentina (in quest’ultimo caso, l’incidente sarebbe stato provocato dallo speronamento di una nave mercantile avvenuto il 24 agosto 1880).

[3] I numeri della sciagura sono riportati in Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 282, venerdì 26 novembre 1880, p. 5057.

[4] Il dispaccio dell’agenzia di stampa è riportato in Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 281, giovedì 25 novembre 1880, p. 5042.

[5] La testimonianza dell’ufficiale è reperibile in Enzo Colozza, Il naufragio della Oncle Joseph. Molti i molisani che persero la vita, in “Primo Piano Molise”, XIX/63, 5 marzo 2018, p. 7.

[6] Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 282, op. cit., p. 5057.

[7] A mo’ di postumo tributo della memoria verso gli sventurati naufraghi dell’Oncle Joseph, riportiamo un elenco (purtroppo incompleto) dei principali dati relativi ai passeggeri sopravvissuti: Anastasio Raffaello, anni 30 (da Casinone, Melia); D’Ambrogio Domenico, anni 25 (da Napoli); Del Vecchio Angelo, anni 44 (da Castelnuovo, Salerno); Di Franco Ferdinando, anni 17 (da Laino, Cosenza); Di Franco Saverio, anni 30 (da Laino, Cosenza); Di Lello Domenico, anni 45 (da Villa Santa Maria, Chieti); Gersoma Maria Santa, anni 2 (da Laino, Cosenza); Giacinto Gelsomino, anni 21 (da Campobasso); Mangini Sabatino (da Pescala, Campobasso); Mariano Isidoro, anni 30 (da Ajello, Cosenza); Marsarano Giovanni, anni 24 (da Isetto, Calabria);  Murano Vincenzo, anni 61 (da Castellabate, Potenza); Pescali Vincenzo, anni 28 (da Pescolanciano, Campobasso); Ricci Giuseppe, anni 25 (da Civitanova, Isernia); Rispoli Maria, anni 28 (da Trecina, Basilicata); Rosai Angelo, anni 24 (da Delsiano); Santa-Capita Raffaello, anni 22 (da Carpinone, Isernia); Tirosano Bonaventura, anni 34, sacerdote (da Cava, Salerno); Verberaro Francesco, anni 23 (da Laino, Cosenza); Verberaro Vincenzo, anni 21 (da Laino, Cosenza).

Le suddette informazioni, sebbene parziali, possono essere consultate sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 283, sabato 27 novembre 1880, pp. 5087-5088.

[8] Indispensabile per ricostruire la storia della potente famiglia Florio il volume di Orazio Cancila, I Florio. Storia di una dinastia imprenditoriale siciliana, Bompiani, Milano, 2008.

[9] Per un approfondimento si consiglia la lettura del saggio Ortigia un vapore con la rogna di G. Mirto ed E. Cappelletti disponibile sul sito www.verdeisland.it [Ultima consultazione del 4/7/2018].

[10] La Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 282, op. cit., p. 5058 riporta, in proposito, la seguente considerazione: «Quando è avvenuta la collisione il mare era quasi calmo, l’aria piuttosto fosca».

[11] Cfr. Enzo Colozza, Il naufragio della Oncle Joseph. Molti i molisani che persero la vita, op. cit., p. 7.

[12] Giulio Cesare Buzzati, L’urto di navi in mare: studio di diritto internazionale privato, Drucker e Senigaglia, Padova, 1889.

[13] Enzo Colozza, Il naufragio della Oncle Joseph. Molti i molisani che persero la vita, op. cit., p. 7.

[14] La vicenda del salvataggio è raccontata, con toni concitati, sulle colonne della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 284, lunedì 29 novembre 1880, p. 5106.

[15] Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 124, sabato 28 maggio 1881, p. 2217.

[16] Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n. 304, giovedì 23 dicembre 1880, p. 5515.

[17] Ferdinando Guaglianone, I naufraghi dell’Oncle Joseph, Tipografia dell’Accademia Reale delle Scienze, Napoli, 1881, p. 9.