23 Dicembre 2024
Etnologia

De Martino, l’etnologia e la difesa costante della vita

di

Mario Gaudio

Mentre negli anni 1953/1955 l’etnologo danese Holger Rasmussen conduceva approfondite ricerche tra Calabria e Basilicata (Sartano, San Martino di Finita e Matera), il suo collega italiano Ernesto De Martino (1908-1965) esplorava a più riprese, nell’arco temporale 1950/1957, diverse località della Lucania constatando l’estrema arretratezza economica e sociale del territorio e raccogliendo preziosissimo materiale documentario su riti e tradizioni ancestrali che continuavano a sopravvivere in quell’angolo di mondo senza tempo.

Sud e magia è il frutto di tale paziente e approfondita inchiesta che, sebbene immeritatamente confinata nell’angusto spazio riservato ai pochi cultori della materia, ci fornisce interessantissime informazioni sui modi di vivere il quotidiano e di concepire il sacro in un contesto dominato dalla miseria e dall’isolamento geografico e morale.

De Martino riporta con intelligenza quell’insieme di pratiche che accompagnavano il ciclo della vita nei suoi momenti salienti (gravidanza, nascita, infanzia, innamoramento, matrimonio e malattia), senza dimenticare il ruolo della natura e i tentativi di addomesticarne i fenomeni ‒ per esempio le tempeste ‒ al fine di preservare i frutti del lavoro dei campi, la cui distruzione avrebbe segnato inesorabilmente il destino di intere famiglie.

Ne emerge un comune denominatore: la necessità di scongiurare la fascinazione ‒ erede agreste della baskania greca e del fascinum latino ‒ e di ricorrere all’opera di figure depositarie di una particolare “virtù” e di un sapere popolare la cui origine si perde nei meandri della Storia.

Ecco, pertanto, che a Gròttole il mal di testa può avere un’origine fisiologica oppure magica, ma per stabilirne la causa occorre mettere in pratica un antico rituale versando una goccia di olio in un recipiente colmo d’acqua: nell’eventualità di un’espansione dell’olio, si ha la certezza di una influenza negativa a cui si deve porre rimedio gettando «[…] l’acqua per la strada, proprio davanti a persona che si trovi a passare, nella persuasione che il passante, calpestando il bagnato, prenda su di sé la fascinatura e ne liberi la vittima».

La difficoltà di un momento cruciale come il parto è, invece, scongiurata nella cultura contadina lucana scucendo alcuni punti del materasso su cui la gestante è distesa, in modo da propiziare una facile espulsione del bambino; la medesima operazione è compiuta al termine della vita, sull’ultimo giaciglio del moribondo, allo scopo di favorire l’uscita dell’anima.

Le precarie condizioni igienico-sanitarie, causa primaria di un altissimo tasso di mortalità infantile, hanno indotto a sviluppare una serie di pratiche finalizzate a corroborare la delicata esistenza del nascituro. In quest’ottica si inseriscono la tradizione dell’immersione del neonato in una mistura di acqua e vino, l’uso di incipriarlo con polvere ricavata dalla trave lignea principale dell’abitazione ‒ simbolo di forza e stabilità ‒ e una strana consuetudine che prevede di condurre l’infante davanti alla bocca di un forno ancora tiepido, affinché assimili le virtù del fuoco.

Tuttavia, la fragile vita del bambino urge altresì di una protezione spirituale garantita dal battesimo e rafforzata, in un curioso «sincretismo pagano-cattolico», da due interessanti riti: il primo si svolge attorno alla culla lì dove «[…] i familiari dispongono […] sette sedie, una bacinella e un asciugamano […]», dal momento che «a mezzanotte in punto verranno sette fate, benediranno naca (culla, n.d.a.), bambino e corredino, attingendo acqua lustrale alla bacinella e asciugandosi poi all’asciugamano»; il secondo si cristallizza in una sorta di talismano denominato “abitino” che, battezzato assieme al pargolo, è costituito da un sacchetto contenente diversi oggetti che, pur nel variare delle tradizioni locali, possono essere parzialmente elencati: un pezzetto di ferro di cavallo, chicchi di grano, grani di sale, figurine di santi, crocette di paglia, un pizzico di cenere, un dente di volpe, un pelo di cane nero e due aghi legati in croce.

Non mancano altri amuleti che la complessa cultura contadina della Lucania ha inteso assurgere a strumenti di tutela della vita appena sbocciata contro invidie e fascinazioni. Si ricordano, a tal proposito, le forbici nascoste dentro le fasce dell’infante (documentate a Tricarico) e alcuni oggetti posti nelle immediate vicinanze della culla: «un ramoscello di sabina (Juniperus sabina, n.d.a.), una chiave, un piccolo pugnale, due pezzi di ferro in croce».

Come si evince da questi pochissimi esempi, il fine ultimo delle vetuste pratiche della magia lucana è quello di tutelare integralmente l’esistenza dell’essere umano dal concepimento alla dipartita.

Tutto ciò trova una sua valida giustificazione nelle precarie condizioni sociali imperanti nelle comunità prese in esame e nel fondamentale bisogno degli individui di creare forme di protezione in grado di trasporre e risolvere su un piano metastorico le negatività della vita reale. Tale operazione è resa possibile, secondo De Martino, ‒ che smette i panni dell’etnografo per indossare quelli dell’etnologo nel tentativo di dare una sistemazione organica ai dati raccolti ‒ dalla convivenza tra «il mito in quanto exemplum risolutore dell’accadere e il rito in quanto iterazione del mito».

Ovviamente, un simile ragionamento può essere esteso anche alla mitologia e alla religione che, secondo la giusta osservazione di Umberto Galimberti, diventano i luoghi adatti ad affrontare le incertezze del quotidiano.

Insomma, l’intero impianto etnologico demartiniano ‒ comprese le sciatte pagine in cui l’autore ricostruisce la storia della jettatura ‒ diventa tentativo costante di ricomposizione delle fratture sociali ed economiche con conseguente ricerca di un equilibrio in grado di far guardare con fiducia al futuro.

Sud e magia ci insegna a comprendere un mondo dominato dall’incertezza ma, soprattutto, l’intima lotta dell’essere umano che, pur di far prevalere costantemente la vita, non esita a ricorrere all’irrazionale.