L’impostura salvifica di Giorgio Perlasca
di
Mario Gaudio
Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, Giorgio Perlasca (1910-1992) fu inviato a Budapest per conto della SAIB (Società Anonima Importazione Bovini) con l’incarico di trattare l’acquisto e organizzare il trasporto del bestiame destinato ad essere macellato in Italia ed inscatolato per le razioni alimentari riservate all’esercito nazionale.
Nonostante la giovane età e la prestanza fisica, il commerciante lombardo fu esentato dal servizio militare, dal momento che vantava all’attivo una duplice esperienza di guerra sui fronti dell’Abissinia e della Spagna franchista.
Tuttavia, il caso o chi per lui lo condusse al posto giusto nel momento giusto trasformandolo in un provvidenziale eroe per migliaia di persone scampate alla morte grazie al suo coraggio.
Enrico Deaglio ne La banalità del bene ricostruisce con documenti, testimonianze e pagine di diario dell’epoca le incredibili vicende di Perlasca, fornendoci il ritratto di un uomo incapace di tacere dinanzi alla incontestabile regressione collettiva generata dal nazifascismo.
All’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati (8 settembre 1943), Perlasca, benché di ideali dannunziani e nazionalisti, rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale subendo, di conseguenza, un periodo di internamento in un castello ungherese.
Riuscito fortuitamente a fuggire, trovò accoglienza presso l’ambasciata spagnola esibendo un documento rilasciatogli con senso di riconoscenza dalle autorità franchiste al momento del suo congedo.
Ricevuto un regolare passaporto iberico, l’ormai italo-spagnolo Jorge Perlasca iniziò a collaborare con l’ambasciatore Angel Sanz Briz che, assieme ai diplomatici delle altre nazioni non belligeranti e alla Croce Rossa Internazionale,[1] portava avanti un rischioso programma di salvataggio degli ebrei.
Nell’ottobre del 1944, la situazione degenerò in maniera irreparabile: l’ammiraglio Miklós Horthy ‒ che, anni prima, si era autoproclamato Reggente instaurando un governo marcatamente conservatore ‒ fu deposto da un colpo di stato promosso dal filonazista Ferenc Szálasi e le SS occuparono i punti nevralgici di Budapest iniziando una sistematica operazione di rastrellamento e deportazione degli ebrei ungheresi.
Dinanzi al precipitare degli eventi, Sanz Briz fu costretto a lasciare l’ambasciata per raggiungere Berna consigliando al suo collaboratore di fare altrettanto, ma le violenze dei tedeschi, le vergognose cacce all’uomo dei nyilas[2] e la speranza di una rapida avanzata dell’Armata Rossa indussero Perlasca a dare inizio ad una pericolosissima quanto essenziale messinscena.
Armato di prontezza di spirito e profondo senso di umanità, l’uomo si fece accreditare presso il Ministero degli Esteri in qualità di Console di Spagna incaricato di sostituire l’ambasciatore appena partito. Sotto queste mentite spoglie, resse la legazione iberica per 47 interminabili giorni (1 dicembre 1944 – 16 gennaio 1945) sostenuto da un alto senso di responsabilità e dai saggi consigli dell’avvocato Zoltán Farkas.
Sfruttando l’istituto dell’extraterritorialità e la spregiudicatezza che solo un falso diplomatico avrebbe potuto permettersi, Perlasca fece ricoverare in case protette migliaia di ebrei ungheresi a cui rilasciò salvacondotti che li ponevano sotto la formale tutela della Spagna in virtù di una antica legge del 1924 emanata da Miguel Primo de Rivera.[3]
Durante il rigido inverno di guerra del 1944, con le Croci Frecciate ungheresi costantemente alla ricerca di ebrei da deportare e le innevate sponde del gelido Danubio ricoperte di cadaveri, l’autonominato Console vagò in cerca di alimenti e medicinali scontrandosi più volte con le gerarchie militari e blandendo le personalità politiche dell’esecutivo di Szálasi con la vaga promessa di un riconoscimento ufficiale da parte del governo spagnolo.
Mediante un’azzardata strategia organizzativa e con risorse sempre più esigue Perlasca riuscì a garantire la sopravvivenza di intere comunità sino all’arrivo delle truppe sovietiche.
Ciononostante, come spesso accade, questi eventi furono per lungo tempo sepolti dal silenzio della Storia e dall’incredulità di quanti ascoltarono il racconto di Perlasca subito dopo il suo ritorno in patria.[4]
Soltanto nel 1987 i ricordi della contessa Irene von Borosceny e l’intraprendenza di un gruppo di donne che si riunivano periodicamente presso il salotto berlinese dell’immunologa Eveline Willinger consentirono di riportare alla luce la vicenda del commerciante comasco diventato, per uno strano scherzo del destino, finto diplomatico iberico.
Il lavoro certosino di Deaglio ci ha offerto un ritratto completo di questo “impostore” geniale e salvifico che si è opposto all’ordinario massacro condotto dai nazifascisti ascoltando le suppliche e abbracciando le necessità di una umanità oltraggiata, avvilita e deturpata nella nobile e cristiana terra d’Ungheria.
L’esemplare condotta di Giorgio Perlasca, che ha guadagnato ‒ giorno dopo giorno ‒ la dilazione dei trasferimenti di intere famiglie verso i campi di sterminio, ha, in un certo qual modo, riscattato le brutture e le delazioni di tanti riprovevoli burocrati che, attratti dal richiamo del denaro e della corruzione, hanno preferito vendere ai carnefici il loro prossimo. Da ciò affiora con nitore l’immagine di un uomo normale che, quasi suo malgrado, divenne eroe e modello per le generazioni successive.
L’odio nasce dal nulla e al nulla conduce ottenebrando la capacità di giudizio e alimentandosi attraverso la deprecabile indifferenza che trasforma il comune cittadino in un boia incallito e sprezzante.
Il protagonista di un noto film sulla shoah chiosava: «Chiunque di noi abbia pensato di essere stato creato da Dio migliore di qualsiasi altro essere umano si è trovato nella stessa condizione di Eichmann, e chi di noi ha consentito che la forma del naso di un’altra persona o il colore della sua pelle o la maniera in cui venera il proprio Dio avvelenassero i propri sentimenti ha conosciuto la perdita di senno che ha condotto Eichmann alla sua follia, perché è così che tutto è cominciato per coloro che hanno compiuto questi orrori»;[5] l’esempio di Perlasca ha mostrato concretamente l’esistenza della possibilità di resistere alla tentazione della «banalità del male».
Bertolt Brecht denunciava amaramente la narcosi delle coscienze lamentando l’afasia degli intellettuali ‒ «Nei giorni a venire non diranno: i tempi erano oscuri. Diranno invece: perché i poeti tacevano?» ‒ ma, in quegli stessi anni, Giorgio Perlasca, poeta della vita, faceva risuonare la sua voce protettiva oltre il fragore delle granate che cadevano su Budapest.
[1] Nell’autunno del 1944, solo uno sparuto numero di personalità della diplomazia affiancò la Croce Rossa Internazionale, capeggiata da Friedrich Born, nella difesa della comunità ebraica ungherese. È giusto fare memoria dei loro nomi: l’ambasciatore spagnolo Angel Sanz Briz, il console generale svizzero Charles Lutz, il ministro svedese Carl Ivan Daniellson, Raul Wallenberg (inviato speciale del re Gustavo di Svezia), il console onorario portoghese conte Pongracz e il Nunzio apostolico monsignor Angelo Rotta.
[2] Bande di militanti filonazisti ungheresi.
[3] Il dittatore Miguel Primo de Rivera (1870-1930) riconobbe, nel 1924, la cittadinanza spagnola a tutti gli ebrei sefarditi sparsi per il mondo.
[4] L’incredibile avventura di Perlasca fu raccontata invano ad Alcide De Gasperi, a Giuseppe Pella e al “Messaggero Veneto”.
[5] Il film in questione è The Eichmann Show – Il processo del secolo del regista Paul Andrew Williams (2015).