23 Dicembre 2024
Fragmenta

Il poetico ritorno di Van De Sfroos

di

Mario Gaudio

Mesi addietro, Davide Van De Sfroos, nei panni del Mythonauta, ci ha condotti in un viaggio televisivo le cui tappe consistevano in una geografia sorta sul fumoso confine tra reale e immaginario, consentendoci di affrontare una deliziosa e interessante immersione nelle profondità del mito, delle credenze popolari, della saggezza delle microstorie e della riserva etica che la provincia italiana fortunatamente ancora custodisce.

La ricerca di fantasmi ed eroi, racconti tramandati oralmente, leggende che trovano linfa e fondamento tra le nebbie del lago – quello di Como, s’intende ‒ e le vestigia di costruzioni ormai predate dal tempo vorace e dalla polvere rappresentano il cosmo ‒ che non è più né sarà ancora o, forse semplicemente, non è mai stato ‒ in cui il cantautore brianzolo si muove con disinvoltura nel felice tentativo di trasformare questi vagabondaggi fisici e metafisici in memorie da perpetuare.

Il perenne movimento, accompagnato dal proposito di una riscoperta delle radici, si è tradotto ben presto in un passaggio dallo schermo alla sala di registrazione che ha generato le quindici tracce dell’album significativamente intitolato Maader Folk.

Van De Sfroos è ritornato alle origini, o forse semplicemente non se n’è mai veramente allontanato, ripercorrendo i sentieri di una musica che risente dello spirare del vento tra le valli, del frangersi delle onde dell’onnipresente lago e dello scroscio di fonti che, all’ombra di boschi montani ‒ luoghi fiabeschi per audaci scalatori ‒, riversano acque cristalline su letti ciottolosi abitati segretamente dal ricordo di gioiose e venerabili ninfe.

Le quindici canzoni proposte dall’artista offrono un immateriale ristoro in funesti tempi pandemici consentendo di ossigenare le nostre menti preoccupate attraverso atmosfere che vagano coraggiosamente tra il folk, spunti di sonorità celtica e note di un apparentemente ossimorico spiritual laico.

Così, l’una dopo l’altra, le canzoni del poliedrico cantautore lombardo propongono evoluzioni intime e riflessive con risultati di altissimo livello in brani ai quali è necessario dedicare almeno un cenno, facendo appello alla benevolenza del lettore verso chi ‒ come lo scrivente ‒ esperto di musica non è, e lasciandogli l’indiscutibile piacere di maturar da sé opinione tramite l’ascolto.

Nel Nomm si presenta come eccitato gioco musicale da cui nasce una sorta di preghiera spontanea e confidenziale ‒ e forse per tal motivo efficace ‒ che, nonostante le contraddittorietà umane («Siam figli del contrasto»), si traduce nella candida confessione: «Parlo al mio Dio come a un compagno di banco»; Goccia di onda racchiude la preziosa perla della trasfigurazione del lago che diventa metafora dei casi dell’esistenza la quale, per quanto complessa possa essere, ritaglia di forza uno spazio riservato all’amore: «L’amore ha il suo pennello che prima o poi lascerà una macchia»; Gli spaesati assume il vigore di un inno per tutti coloro che continuano a vivere nelle quotidianità dei paesi non rigettando il progresso, ma assaporando e custodendo tradizioni, riti e miti del tempo andato e cercando di mostrare il valore immenso della simbiosi con la Terra Madre: «Siam gli ultimi brandelli di una bandiera vera che non sai più se c’è, ma che una volta c’era»; Guanto bianco è l’appassionante intreccio di notti, brezze, alberi e lune sul quale si stagliano i pensieri e i ricordi che, a ben vedere, costituiscono il nostro affascinante, modesto e al contempo onnipotente modo di viaggiare nel tempo; Agata è il commovente tributo alle donne speranzose e forti che vedon partire i mariti per la guerra o in cerca di lavoro, sobbarcandosi i pesi materiali e spirituali della famiglia e rimanendo appese ai sospiri generati da lettere inzuppate di lacrime in cui si intravede l’agognata promessa: «Non piangere, Agata, e guarda la valle, vedrai che ritorno con questa distanza dietro le spalle»; Il mito di Thor ci avviluppa in un’atmosfera tipicamente scandinava in cui, tra tocchi di tamburo e vibrazioni d’arpa, la figura del muratore, associata a quella del potente dio del tuono, è coinvolta in un lavoro di costruzione che ha come fine ultimo la protezione delle fragili e mortali creature umane: «[…] verranno giganti del ghiaccio / e demoni del fuoco, / ma qui c’è il tuo riparo / che cresce poco a poco / di fuori vedi il cemento / ma dentro è tutto cuore / e chi non lo capisce / non ha fatto il muratore»; Tramonto a Sud ospita le suggestive impressioni vissute al calar del sole da un’angolazione diversa per il nostro cantautore, quella meridiana, in cui si mescolano in armonie cromatiche e sonore i muri bianchi di Ostuni e le incandescenti tinte arancioni del cielo d’Irpinia.

Da questo politematico excursus è rimasto volutamente escluso un brano che, a conti fatti, può ben rivendicare il titolo di primus inter pares tra le meravigliose tracce di Maader Folk, meritando pertanto qualche spigolatura a parte.

La canzone in oggetto è intitolata Oh Lord, vaard gio ed è un emozionante duetto tra Davide Van De Sfroos e Zucchero. Nei rispettivi dialetti ‒ laghée ed emiliano ‒, con inserzioni in lingua inglese, i due cantautori elevano una fiduciosa preghiera che abbatte potente le barriere dell’incertezza del mondo per condensarsi nelle evocative parole del ritornello: «Oh Lord please tell me / in’de g’hoo de nà adèss / Oh Lord please tell me / cussè g’hoo de fà adèss» (“O Signore per favore dimmi / dove devo andare adesso / o Signore per favore dimmi / cosa devo fare adesso”).

Qualunque sia stato l’effetto spirituale della speranzosa preghiera, un miracolo terreno si è già verificato: quello di aver stanato ‒ e il verbo non è casuale ‒ dal proprio rifugio lo scrittore-alpinista Mauro Corona, protagonista del riuscito videoclip diretto da Dario Tognocchi.

Le note di Van De Sfroos e Zucchero ben si accordano con le immagini del microcosmo di Corona in cui convivono natura incontaminata, aspre rocce, il sapore del tabacco, le melodie dell’armonica a bocca, l’abilità della scultura del legno e l’immancabile scrittura affidata ad inchiostri e taccuini rétro.

Insomma, il silenzio di Davide Van De Sfroos è durato sette lunghi anni ‒ tanto dista il suo ormai penultimo album ‒, il tempo necessario per creare un capolavoro.