23 Dicembre 2024
Fragmenta

Scarpe, foto, pennelli e cose ultime

di

Ettore Marino

Un mio amico, che ha nome di Giorgio Godino, mi mostrò un giorno alcune foto. Ritraevano un paio di scarpe da lavoro della più che nonagenaria sua madre Lauretta, confezionate per lei dal maestro calzolaio Vincenzo Candreva di Vaccarizzo Albanese in sul finire degli anni Sessanta. Intendendo esporle su Facebook, Giorgio mi chiese che le corredassi di una nota esplicativa. Se ne nacque qualcosa di più di una semplice nota, fu perché, oltre all’amor filiale e alla chiara finalità comunicativa, l’intento suo contemplava una precisa finalità espressiva: aveva egli ritratto quello e non un altro oggetto, e lo aveva ritratto in quel modo, immediato e violento, e non in altri. Fatalità poi volle che un assai più famoso paio di calzature, non già fotografato ma dipinto, avesse funto da stimolo a riflessioni ben più puntute e ghiotte di ogni mia possibile, sì da forzarmi a sposare il mio ruscelletto alle loro acque poderose.

Vincent van Gogh dipinse più volte scarpe assai vissute. A uno di questi suoi quadri Martin Heidegger dedicò una conferenza, poi sviluppata e raccolta in Sentieri interrotti (titolo originale Holzwege, 1950). Sfilzerò al massimo, sperando di non involgarire. L’essenza di ogni manufatto giace nel suo essere-mezzo: una penna serve per scrivere, un maglione serve a proteggerci dal freddo, e così via. Appunto, servono e, finché funzionano, nulla ci chiediamo di essi. Circa ogni strumento ci poniamo domande, e otteniamo risposte, proprio cessando di viverlo come strumento. Altro sono le scarpe, altro un quadro che le rappresenti. La verità dell’esser scarpa della scarpa è proprio il quadro a schiuderla. Non mimèsi, non fabrilità, ma, appunto, aspirazione della verità a farsi opera. Heidegger scrive: “Nell’orificio oscuro dell’interno logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi solchi del campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell’umidore e del turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messi mature e il suo oscuro rifiuto nell’abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell’annuncio della nascita, l’angoscia della prossimità della morte. Questo mezzo appartiene alla terra, e il mondo della contadina lo custodisce. […] Ma forse tutto ciò non lo vediamo che noi nel quadro. La contadina, invece, porta semplicemente le sue scarpe.” (L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, traduzione di Pietro Chiodi, La Nuova Italia, 1968.) Ci importi solo quanto segue: la verità del manufatto è svelata e dischiusa dal quadro.

Non la pensava così Meyer Schapiro, che contro Heidegger sostenne (La natura morta come oggetto personale, 1968) essere quelle ritratte non già scarpe da contadino, ma scarpe di van Gogh stesso, uomo di città, che le avrebbe dipinte come una parte importante di sé, specchiandosi in esse. Non la verità della cosa, ma quella dell’autore fiorirebbe dal quadro e nel quadro. Soggetto contro Oggetto e vice versa, dunque: uragano più vasto dell’articolo cui devo limitarmi.

Che non può chiudersi così, poiché nel 1978, in La vérité en peinture, Jacques Derrida ripigliò il filo della disputa, complicandola di ricchezze destinate anche qui a venire taciute. Dirò solo una cosa. Decostruire è per Derrida tutt’altro che distruggere. Quando parla del demoltiplicarsi della cornice protocollare, o quando chiama il parergon (ciò che sta accanto all’opera) “accessorio che si è forzati ad accogliere sul bordo e a bordo”, poiché esso è “né solo fuori né solo dentro” (traduzione mia, qui e sotto), intende egli fluidificare due confini: quello che isola il quadro; quello che separa la lingua del pittore da quella dello scrittore. Quanto alle scarpe del quadro, Derrida dedica loro un “polilogo”, cioè un rincorrersi di voci intitolato Restitutions. A una di esse fa dire: “Semplicemente, queste scarpe non appartengono, non sono né presenti né assenti, ci sono delle scarpe, punto e basta.” Le voci séguitano però a prodursi in un discorso che s’assottiglierà senza chiudersi mai.

A chi mi chiedesse la mia, dirò che nulla a me rileva se le scarpe dipinte abbian premuto solchi o acciottolati urbani; che lo prèdico di ogni referente, individuato o meno; che l’anima dell’autore può parlarmi e mi parla solo in quanto diventata opera; che ciò vale anche per il critico, opera essendo il suo lavoro. Solidale e nient’altro di più al referente e all’autore, l’opera sola ci arricchisce; e la arricchiamo (o impoveriamo) a nostra volta giusta le irritazioni i valori i saperi le sbarre dell’anima nostra. Quanto all’istanza derridiana di fluidificare i confini dei territori real-mentali irrigiditi in coppie inadeguatamente antinomiche, balbetterò che la nebbia e una piccola sfera d’acciaio (l’amorfo e la forma, il ribollio e l’identità) sono gli estremi tra i quali si gioca ogni gioco, e tutti i giochi convergono in uno e tornano a divergerne, e giocare si deve, come di fatto gioca ognuno, e il frutteto è uno a tutti, una a tutti la siepe. Non la varchi. L’Oltre irrompe se vuole. L’Oltre è irruzione che non scegli: che è vano perfino invocare.

Ogni frammento di realtà riconduce, indagato, alle cose ultime. Fotografate e ostense, le scarpe che il maestro Candreva fornì alla signora Godino un giorno ignoto e lontanissimo ce ne hanno appena offerto un assai grato esempio.