L’urgenza di due storie
di
Ettore Marino
Due storie urgono in punta di penna. Vogliono ch’io le narri, così come a me furono narrate: parecchio tempo addietro, e da chi non c’è più. Le narrerò con uno scopo, un assai chiaro scopo, del quale dirò in chiusa. Adesso, infatti, è l’ora della prima storia.
Città d’Italia, e non so quale. L’epoca, quella in cui tutti portavano il mantello. In un ridotto di teatro, sfaccendati e ricolmi di noia, alcuni gentiluomini consumavano le ore della sera vantando chi le proprie conquiste mulìebri, chi la beltà dei cavalli che aveva in scuderia, chi la destrezza nel tirare di scherma. Non dubitava alcuno né delle proprie né delle altrui virtù. Ma quando uno di essi, il più giovane e biondo, si dichiarò animoso al punto da potersi recare da solo al centro del cimitero in piena notte, un coro di incredulo stupore lo investì. Il giovane, però, scrutò gli amici ad uno ad uno, con fiera aria di sfida, e la brigata sfidò lui: “Domani, qui, a quest’ora. Ti porteremo un martello e un paletto appuntito. Lo pianterai innanzi alla cappella della tua famiglia. Col giorno andremo a verificare. Sarai il re, tra noi, se lo avrai fatto per davvero.”
Grande era la città dei morti, e al casto lume della luna il biondo giovane avanzava, lieto del suo coraggio; andava, il biondo giovane, martello in tasca, paletto in mano, e andando canticchiava un motivetto sciocco e allegro. Ed ecco il luogo convenuto: la cappella in cui dormono gli avi, il sacrario in cui lui, un giorno assai lontano, sazio di feste e di sospiri, riposerà per sempre. Stringe e soppesa con la mano il paletto che alla luce del sole lo farà eroe e re. Poggia un ginocchio in terra. Cava il martello di tasca: un colpo, due colpi, tre colpi, quattro colpi, e il simpatico scettro è confitto nel suolo. Nell’atto di rialzarsi, un inatteso gelo lo abbranca in gola. Sarà il custode a trovarlo cadavere, all’alba. Con il paletto, aveva ribadito al suolo l’ultimo lembo del mantello. Levandosi su per andar via, la catena gli si era stretta al collo. Il terrore aveva fatto il resto.
Seconda storia. Ignota anche qui la città, remoto il tempo; quanto alle maschere del dramma, attribuirò loro un nome, e per giunta il più ovvio: per gusto letterario, per ansia di chiarezza. La scena, un caseggiato di quelli che ospitavano mortali d’ogni indole e ceto. L’epilogo si brucerà in un’aula di Tribunale.
Nel detto caseggiato, dunque, viveva un ciabattino di mezza età. Non senza sforzo, soleva egli portare il suo panchetto da lavoro in un cantuccio della corte e, mestamente lieto, dava alla luce scarpe nuove o sottraeva al buio scarpe malconce. Efesto era il suo nome, ed era zoppo dalla nascita.
Ed ecco che in quello stesso caseggiato, un giorno che pareva eguale a tutti gli altri, venne a risiedere un tal Marzio, che aveva una trentina d’anni, una barba possente, un possente torace, e gambe svelte e forti. Sovracuta e dolciastra, la voce sua non s’accordava all’amena armonia delle membra, sibbene al taglio, sgraziato, delle labbra e all’ingrato sorriso che gliele increspava.
Il Marzio lavorava presso un’Agenzia di assicurazioni. Era stato avanzato di grado, da cui l’aumento di stipendio che gli aveva permesso di acquistar casa lì. Spesso rientrava in compagnia ora di una ora di un’altra donzella. Ma la città era da sempre di costumi così placidamente gai, che un conquistatore di femmine ovvero un pagatore delle stesse non correva alcun rischio di invidia o di sdegno.
Ora però prese a accadere che, solo o meno che fosse, sia uscendo sia rientrando, il Marzio s’accostasse al panchetto sul quale Efesto dava alla luce o sottraeva al buio le discrete custodi dei piedi, gli battesse una mano sulla spalla e, soffiando tra denti e labbra quella brutta sua voce, trillasse: “Eh, il nostro povero zoppo!”, e andava via. E sempre Efesto ringraziava con una grassa risata di perdono quell’elemosina che gli veniva messa in mano. Finché venne la volta che a quel sorriso, che a quella voce, che a quelle parole, rispose sprofondando il coltello trinciacuoio nella pancia serena dell’assicuratore.
La difesa si svolse così. L’avvocato s’alzò, si guardò intorno, inspirò di naso e: “Signor presidente,” disse “signori della Corte…”, e ritornò a guardarsi intorno, a inspirare di naso, a sedersi. Si rialzò quasi subito, guardò intorno di nuovo, prese fiato, ritornò a dire: “Signor presidente, signori della Corte…” e, volto ancora lo sguardo dattorno e inspirata quanta aria poté, si sedette di nuovo, stette beato qualche po’, per tornare ad alzarsi, lentissimo, a ripetere ancora quanto già detto e ripetuto. Non appena si fu riseduto, il giudice tuonò: “Vuole farci impazzire, avvocato?!?”
“Io?”
L’omicida fu assolto.
Lo scopo che mi snodò la penna a narrare le storie era quello di chiedere all’eventuale lettore che le conoscesse di comunicare, a me direttamente su WhatsApp o a Mario Gaudio sul sito della sua gazzetta, almeno una delle fonti, se pur mai esse esistono. Volevo ciò. Ora, però, lo voglio e non lo voglio. Provai gioia a narrare. Feci letteratura. Accadute realmente o inventate da altri, le storie non acquistano o perdono corpo e verità. Scelga dunque il lettore: se mai le fonti conoscesse, me ne renda partecipe se e solo se lo vuole. Sapere, infatti, non sempre è necessario, e qui per certo non lo è. Grazie comunque a tutti!