Schermo, gioco, ipotesi e realtà
di
Ettore Marino
Amavo andare in bicicletta, seguivo con ardore le corse per TV, nutrivo un tifo indemoniato per Francesco Moser, e una buffa tempesta s’abbatté sui miei giorni. Le volate di Beppe Saronni erano colpi di rasoio. Vinceva, e ne morivo. Presi a fantasticare di infilzargli una punta di stilo nel mezzo della schiena: la punta sola, dico, che non lo avrebbe ucciso ma levato di sella per un pezzo. Di quella mia follia rido per come merita, e riderei con pace molto più soave se qualcuno non le avesse dato corpo infiggendo davvero una punta d’acciaio in una carne viva.
Una fanciulla impavida, bionda di crine, grata di membra e dalle labbra strappabaci, aveva accelerato il lento, il solenne declino di Chris Evert e di Martina Navratìlova, regine del Tennis mulìebre. Stefanie Maria Graf era il suo nome: Steffi però per chi la amava, o per chi solo sapesse di lei. La amavo, io? L’immagine non è la donna. Steffi volteggiava e trionfava sullo schermo del televisore. Avessi conosciuto Saronni, gli avrei confessato il mio odio, ne avremmo riso insieme. Avessi frequentato la Graf, l’avrei desiderata? L’avrei amata? Avrei avuto cuore di palesarle la mia fiamma? La differenza tra me e un pazzo sta tutta e solamente nel fatto che io non lo sono. Amo giocare, io. So il gioco di contro alla realtà. Steffi era un gioco, che condensai nei versi che seguono, e che i più cari amici ancora mi ripetono con ironia fraterna: “Dolce mi graffi con sorrisi e sbuffi / di ritrosi pudori, o bionda Steffi. / E piaccia al Ciel ch’io, fatto forte, beffi / le malvagie distanze, e in te mi tuffi!”
Qualcuno, intanto, andava covando per davvero amore e odio insani. Una fanciulla serba di stirpe magiara era irrotta sui campi di Tennis contendendo lo scettro alla Graf. Aveva un sorriso da prima comunione, e una beltà da sagra di costume etnico. Vibrava a due mani ogni colpo, rovescio o dritto, cadenzandoli tutti d’un urlo in due momenti: il primo preparava l’altro, e questo dava libertà alla terra al sangue all’ansia all’anima: alla vittoria e alla felicità. Monica Seles non ha ancora vent’anni, e lo scettro è ormai suo, saldamente.
Non c’è mai sport senza classifica. Il Tennis, però, è una classifica senza remissione. Si tiene conto di ogni risultato, e di momento in momento tifosi e atleti e mondo intero sanno chi tra i tennisti è primo, chi secondo, chi terzo, chi quarto, e giù giù verso la tristezza. Dissi altre volte del prozio che classificava al calor bianco: ad ogni piè sospinto si chiedeva e chiedeva chi fosse il primo tra i poeti, il primo tra i filosofi, il primo tra i tenori, tra i giornalisti, tra gli attori, tra i cardiochirurghi, tra gli apparecchi fotografici, tra i frigoriferi, tra i saponi da barba – e arrivò a chiedere a me quale fosse la più quotata tra le religioni. La cosa è vita. Quotare è uccidere la cosa simulandone il possesso.
Ritorniamo sul campo di gioco. È il pomeriggio del 30 di Aprile del 1993. Torneo di Amburgo. Quarti di finale. Monica Seles, che ha vinto il primo set per 6-4, conduce nel secondo per 4-3 su Magdalena Maleeva. Arsa pare la terra del campo. Anche Monica ha sete. Beve un sorso di acqua, e stupore e dolore le strappano un urlo che la forma di ciò che non ha forma. Tutto è immoto, e si muove; tutto è altrove, ed è là. Un piccoletto calvo e goffo, sgusciato dagli spalti, le ha piantato una punta d’acciaio nel mezzo della schiena.
Non grave, la ferita. Monica cade però in preda a terrori e cupezze. Si sfogherà col cibo. Tornerà in campo due anni dopo. Giocherà bene, vincerà a volte, e pure tornei di prestigio: ma è solo l’ombra dell’alba sua vibrante. Un’affettuosa autoironia, che il punto fosse conquistato o perso, le aleggiava negli occhi, traluceva in sorrisi indulgenti, in smorfie un poco bambinesche. Soltanto l’urlo era lo stesso, a cadenzare l’eco dell’esiliata onnipotenza. È forse oggi serena, riconciliata col destino, mestamente felice a sua onta? Non so. Mi limito a sperarlo.
Una speranza assai più ardua ci si deve forzare a nutrire per chi le flagellò la vita. Nel momento dell’insano gesto, Günther Parche era un disoccupato tornitore di 38 anni d’età. Non tollerava che il primato fosse passato dalla sua Steffi a Monica. Cosa lo rese folle? Non poterlo sapere dà la stura alle ipotesi. Io me lo fingo nato da madre affranta, incapace d’affetto, nemica, e da padre che, incline all’ira e onniclassificante, lo pretendeva primo in ogni cosa che facesse, lo affliggeva per ogni goffaggine, lo divorava ad ogni errore. Me lo figuro poi legato dall’amore a una ragazza che si rivelerà viperea, sadicamente derisoria di ogni pena che andava infliggendogli. A dar più peso al peso, voglio che si chiamasse Monica. Ciò immagino. Ciò valga quanto vale.
“A chiunque ha perduto ciò che non si ritrova / giammai, giammai…”, ebbe a cantare Charles Baudelaire. E che le note del suo canto cullino il buio e i lampi troppo rossi di quanto oggi ho narrato.