Spiaccia anche a te, se a me già spiacque!…
di
Ettore Marino
Premessa prima. Soggiornavo a Cosenza. Alle ore diciotto di venerdì 24 Novembre mi trovavo da un pezzo al Cinema Citrigno. Vi proiettavano l’ultimo film su Bonaparte, e avevo temuto di non trovarvi posto. La sala, invece, era quasi deserta. Napoleon iniziò: regia di Ridley Scott, di David Scarpa il soggetto e la sceneggiatura. Compatii ogni assente. A proiezione consumata, ogni assente invidiai. Saltai la cena per stendere l’articolo. Lo ritoccai il giorno dopo. Fiumi d’inchiostri e di parole altrui avevano intanto sfogato, per video e per gazzette, la stessa mia delusa stizza. Avevo scritto invano. Se pubblico il mio pezzo, è soltanto perché lo trovo un poco meno inutile del film che lo ispirò.
Premessa seconda. Un’arcicara amica, scultrice di talento e fine storica dell’Arte (sentirla dissertare del Caravaggio o del Bernini è quasi averne, e con più nitido sguardo, i quadri e le statue innanzi agli occhi), coltiva un buffo vezzo: reputa degni d’esser visti soltanto i film recenti. Arduo è uccellare il punto esatto in cui secondo lei il vecchio cede al nuovo; per certo, un film vecchio non merita neanche di esistere. Un’idiosincrasia, codesta: lecita solo in quanto tale. Guaio è che lei qui non si fermi, bensì tenti ogni volta di convertirla in concetto e, giacché non lo può, il concetto abortisce ogni volta in una derisoria accusa a chi non condivida la personale sua allergia. So con troppa chiarezza che ogni giudizio estetico è soggettivo ma tende all’universalità; mai ho perciò confuso, nella stesura dell’articolo, quel che risuona in me con ciò che ha da valere per tutti.
Napoleon, dunque. Mediamente belli i costumi, avvincenti le non impeccabili scene guerresche, color locale indovinato nell’insieme, appropriate le musiche.
Ora sondiamo il baratro. Perenne è la tensione tra invenzione e storia. Si danno sintesi superbe. Napoleon, lungo nastro di scene mal cucite, è il fallimento d’ogni sintesi. Troppi gli errori storiografici: un’assai celebre constatazione del principe di Talleyrand sui modi inurbani del Còrso è senza alcun motivo posta in bocca all’ambasciatore inglese; al contrario di ciò che vediamo, Bonaparte mai fece bombardare le Piramidi; Murat e Leclerc, il cui tempestivo intervento contribuì a faustamente risolvere il colpo di Stato del 18 Brumaio, non sono neanche nominati; taciuto è pure il nome del maresciallo Ney, il quale, promesso ch’ebbe a Luigi XVIII di condurre a Parigi in un gabbione in ferro Bonaparte fuggito dall’Elba, si unì invece, col reggimento intero, a Bonaparte stesso; al Napoleone asceso all’imperiale soglio ci si rivolgeva col titolo di sire, laddove, almeno nel doppiaggio italiano, viene spesso chiamato, e ciò è oltre il grottesco, imperatore; Pio VII, forzoso testimone dell’autoincoronazione a Notre-Dame, sembra un vecchietto isterico che, umiliato dal despota, tenti maldestramente di rizzarsi in piedi snocciolando frasi di circostanza con la voce stentorea e la beota enfasi di un cinegiornalista dell’EIAR; a Waterloo vediamo (inesistite) trincee; mai Wellington andò a visitare Napoleone prigioniero sul Bellerophon; l’eroe esiliato morì a letto, e non, com’è secondo Scarpa e Scott, su una sedia in giardino. Non chiamerei errore, bensì (grata) licenza scenica, il fatto che Marie Antoinette venga condotta al patibolo vestita d’azzurro e con la precocemente incanutita chioma che le danza sugli omeri e intralcia e impaccia l’operato del boia, mentre il capitano Bonaparte, che in verità non c’era, guarda pensoso e preoccupato.
Le due ore e quaranta minuti di film non potevano certo coprire tutti gli snodi storico-epocali che una così vasta epopea chiude in sé. Condotta in modo desultorio e sfilacciato, la necessaria scelta ha intristito non pochi storiografi: per come concepita, e per il fatto stesso che sia stata operata. Personalmente credo che Scarpa e Scott abbiano confidato nella diffusa comune conoscenza del fenomeno Bonaparte, scegliendone i lacerti a loro parsi più succosi. Si aggiunga che sarà quanto prima fruibile una versione piena, di più di quattro ore di durata, buona spero a colmare più d’una lacuna.
Un re di Macedonia disse che nessun eroe è tale per il proprio garzone da camera. Due millenni più tardi, Hegel, che negli eroi a suo modo credeva, commentò che è così per la naturale miopia del garzone, e Schopenhauer ribatté che ogni eroe è tale solo per alcuni rispetti e in alcuni momenti: prima e dopo, è egli uomo tra gli uomini, come ogni cameriere sa. Del Bonaparte uomo la psicologia è sondata nel film per elementari balbettanti occhiate nel suo guscio domestico: occhiate che con pretensiosa definitività ci scodellano un Bonaparte dominato dalla madre e infantilmente infatuato di una Joséphine di cui è geloso al punto da abbandonare la campagna d’Egitto per avere saputo (udite bene!) che lei gli fa le corna. In scene tra di commedia e di filmetto scollacciato, patetiche se volute tali e desolanti se volute non furono, il maltrattato grand’uomo sembra il brodo ristretto d’un cagnolino mal svezzato e d’un troppo voglioso porcello.
Se produttori e casting lo lasciano in pace, ogni regista sceglie gli attori che vuole. Il Robespierre che descrizioni e ritratti hanno depositato nella memoria d’Occidente era un giovane uomo magrissimo, occhialuto, giallastro per frequenti emicranie e mal di fegato perenne – e il Robespierre del film è un cinquantenne cicciosetto. Quanto al Napoleone che ognuno vede con gli occhi dell’anima, era ossuto e crinito da giovane, stempiatello e panciuto nella maturità, e sempre e in ogni istante inquieto, mobilissimo, fulmineo d’occhi, di volontà, d’intelletto… Tirannico è l’immaginario: nella vaghezza sua, nella sua precisione. Ritorno a dire: scelga il regista gli attori che gli aggradano; sia padrone davvero, il regista e ogni autore, dell’opera sua propria. L’immaginario mio, però, qui umile propaggine di quello collettivo, si contorce ferito alla vista d’un Bonaparte plumbeo come Joaquin Phoenix: aspro è infatti aspettarsi un occhio d’aquila per poi doversi accontentare dell’occhio d’un bove stupito.
Mentre il capitano Bonaparte s’ingegna a liberare il porto di Tolone, un proietto gli uccide il cavallo. Portato a termine il suo compito, il vittorioso ufficiale infila un braccio nella carcassa del povero quadrupede, ne estrae la palla che l’ha ucciso e la consegna a non ricordo chi perché la porti a sua madre. Pegno greve di simboli, quel proietto di bronzo. Mi dissi certo che, in ossequio alle leggi e all’arte del narrare, sarebbe ricomparso. Certezza erronea: mai più lo rivedemmo. È un vuoto, un venir meno, un incongruo mancare – una falla biancastra che a guisa di cifra racchiude la vacuità sgraziata dell’intero film.