Il «quadrifoglio» poetico di Ettore Marino
di
Mario Gaudio
La lingua ‒ si sa ‒ è donna volubile e, in quanto tale, talvolta si presenta sotto le sembianze di nobile matrona agghindata di norme a cui i benparlanti cercano di attenersi in maniera scrupolosa, talaltra essa assume le movenze di capricciosa ragazzetta che, spogliatasi degli orpelli imposti da grammatici e pedanti, si lascia accarezzare liberamente da usi e consuetudini che gli uomini di ogni tempo e latitudine sviluppano, più o meno consapevolmente, nel corso della loro quotidiana attività comunicativa.
Si ripropone pertanto ‒ in vesti rinnovate e in termini moderni ‒ l’eterno conflitto che già nel mondo antico animò il dibattito culturale attraverso la contrapposizione di due scuole di pensiero profondamente diverse sul piano ideologico, ma altrettanto valide sul versante argomentativo.
Per meglio comprendere la questione, è bene sintetizzare i termini della remota e perenne disputa spendendo qualche parola sui contendenti e le rispettive idee. Da un lato della barricata si ritrovarono i cosiddetti analogisti, il cui centro di riferimento era l’antica scuola di Alessandria: essi sostenevano la natura razionale della lingua che, pertanto, si configurava come prodotto di norme e regole grammaticali prefissate. Ne scaturì un filone di studi filologici che consentì la restituzione della forma originale di vetusti testi ai quali il tempo e gli uomini avevano apportato interpolazioni e arbitrarie modifiche.
Dall’altro lato della trincea operarono gli anomalisti, afferenti alla scuola di Pergamo, che videro nella lingua un organismo naturale e spontaneo la cui evoluzione era indissolubilmente legata all’uso vivo fatto dalle diverse generazioni di parlanti nel corso del tempo e al variare delle idee. Da ciò fiorirono un’attenzione particolare nei confronti del contenuto dei testi ‒ a discapito della forma ‒ e la tendenza all’interpretazione allegorica delle vicende raccontate.
Da quanto appena detto è facile dedurre la complessità della questione linguistica, la quale, a conti fatti, è il tema portante dell’agile volumetto di Ettore Marino.
Sia le traduzioni sia i validi saggi disposti a mo’ di introduzione e di appendice si sviluppano a partire da una spinosa necessità: quella di riflettere sul futuro della lingua d’Arbëria che, idioma di minoranza, naviga attualmente in cattive acque a causa della graduale scomparsa dei parlanti e del dilagante disinteresse delle giovani generazioni.
Marino affronta la vexata quaestio costruendo innanzitutto un’antologia e percorrendo, in secondo luogo, il tortuoso sentiero della traduzione.
Gli autori proposti sono in numero di quattro e costituiscono quel famoso «quadrifoglio» evocato nel titolo. Si tratta di Gerolamo De Rada (Macchia Albanese 1814 – San Demetrio Corone 1903), Francesco Antonio Santori (Santa Caterina Albanese 1819 – San Giacomo di Cerzeto 1894), Giuseppe Serembe (San Cosmo Albanese 1844 – San Paolo del Brasile 1901) e Giuseppe Schirò (Piana degli Albanesi 1865 – Napoli 1927): i primi tre furono accomunati da un’esistenza grama e dall’appartenenza all’Arbëria calabrese, il quarto fu originario di quella terra siciliana un tempo denominata Piana dei Greci ed oggi nota come Piana degli Albanesi.
I brani poetici riportati da Marino non sono figli del caso, ma formano un vero e proprio itinerario di sentimenti e parole attraverso il quale il lettore può distinguere chiaramente una sorta di fil rouge che unisce gli autori appena citati e che si esplicita tanto nella sensibilità ‒ quasi onirica ‒ nei confronti della natura e dei paesaggi quanto nell’onnipresente legame ‒ anch’esso sospeso in una sfumata atmosfera tra sogno e realtà ‒ con l’antica madre Albania, le sue tradizioni e le gesta memorabili dei suoi eroi.
Affiora altresì un quadro di valori condensati essenzialmente attorno a due tematiche di rilievo: l’alto senso dell’onore e il classico binomio eros/thanatos (amore/morte).
L’onorevole fierezza balcanica trova spazio nei deradiani Canti di Milosao (1836) per mezzo di un apprezzabile chiasmo in cui Milosao stesso promette amore alla figlia di Kologrea in questi termini: «Tuo nutrimento e tua difesa / le mie frecce, il mio aratro» (canto XX).
Altrettanto significativa è l’immagine dell’incontro tra Vantisana e Monùsk, giovani e infelici innamorati le cui vicende sono cantate nel poema Skanderbeg sventurato (Skanderbeku i pafan). In una notte di oscurità e tempesta gli amanti si ritrovano casualmente all’interno di una chiesa nella regione di Elbasan. Monùsk capeggia un drappello di soldati turchi ma, durante l’irruzione tra le mura del sacro edificio cristiano, ritrova ‒ ormai battezzata ‒ la sua fiamma di un tempo e, arso dal ricordo della nobile passione, ordina ai suoi commilitoni di ritirarsi, pronunciando parole di squisita delicatezza: «Andiamo. Solo noia / potremmo dare a chi, / consanguineo o nemico, / gode la pace della notte».
Particolarmente preziosi risultano essere anche i versi di Schirò che trasudano di nostalgia per la patria albanese e invitano a far memoria delle nobili imprese dei padri che, a ragion veduta, vengono additati come ineludibile modello per le generazioni a venire.
Una nota a parte merita il cimento della traduzione a cui Ettore Marino si sottopone. Com’è noto, l’azione del tradurre consente di tramandare ma, al contempo, espone al rischio di tradire il testo originario.
Il traduttore fa precipitare su un cosmo definito di parole le acque del diluvio, procedendo pertanto ad una de-creazione che porterà ad una ri-creazione costruita ad immagine e somiglianza del testo di partenza, ma con l’utilizzo di una lingua differente capace di mantenere intatti i messaggi dell’autore e di renderli fruibili ad una platea di lettori diversa rispetto a quella a cui erano inizialmente indirizzati.
Marino si sforza ‒ riuscendovi egregiamente ‒ di attenersi con fedeltà ai brani del suo «quadrifoglio» poetico, rendendone tanto i significati quanto, ove possibile, le forme metriche e stilistiche.
Tutto ciò è reso fattibile dalla sua storica frequentazione con la poesia e dal fatto di esser anch’egli apprezzato scrittore di versi.
Come già accennato, la questione della lingua d’Arbëria è il vero leitmotiv che connota l’intero volume. In tempi di crisi generalizzata, anche l’antico idioma volge al tramonto e con esso si spengono inevitabilmente i ricordi connessi alle vetuste origini d’oltre Adriatico.
Giuseppe Schirò pubblicava nel 1900 il poemetto Te dheu i huaj (Nella terra straniera), in cui, al netto di una certa enfasi retorica, tracciava, con fare quasi profetico, un impietoso e realistico ritratto di ciò che si sta attualmente consumando nelle nostre comunità: «E presto o tardi ha da giungere l’ora / in cui i figli nostri non sapranno / che il loro sangue è degli eroi invitti / che con il Kastriota combatterono / quando egli rifulgeva sulla terra. / Nulla gli dirà un giorno / il nome d’Albania, / dove gli eroi d’un tempo nel sepolcro / dormono sazi di vittoria, l’arco / e la faretra al fianco, con la spada / nuda di sotto il capo, da improvviso / sonno ghermiti».
Dinanzi a tale desolante spettacolo di negazione della memoria, favorito dai famelici morsi della globalizzazione, e di fronte allo sgretolarsi irrimediabile della lingua, il volume di Ettore Marino ci offre tre interessanti spunti su cui meditare. In primis si addita la canzone come validissimo strumento attraverso il quale far continuare a palpitare l’antica parlata. Se la poesia rimase patrimonio di pochi appassionati ed ebbe risonanza popolare solo ed esclusivamente nelle sue forme satiriche o religiose, il canto fu da sempre ‒ e continua ad esser tale ‒ veicolo di parole, tradizioni e pensieri, nonché elemento di forte collegamento tra le generazioni. Ne è testimonianza vibrante l’importanza assunta nel corso degli anni dal Festival della canzone arbëreshe di San Demetrio Corone.
In secundis, Marino evidenzia il valore della condivisione. Il presente libro nasce proprio all’insegna di tale spirito, senza l’intento di aprire nuove prospettive di studio o animare sterili polemiche sui goffi tentativi di far risorgere una lingua spargendo qualche parola di saluto nell’idioma d’Arbëria in più o meno ripetitivi e sbiaditi convegni di studio.
In terzo luogo, emerge con cinica e veritiera chiarezza il bisogno ‒ sicuramente vano, ma impellente ‒ di continuare a far qualcosa, affinché le varie parlate arbëreshe rimandino quanto più a lungo possibile l’ineluttabile estinzione. Faccio mia, in proposito, una brillante considerazione di Marino che è doveroso citare: «A chi chiede come salvare la lingua dico che occorre fare tutto sapendo che non serve a nulla. A chiederlo, sono gli innamorati suoi: gli eroici, arcipochissimi innamorati suoi. La parlano, la leggono, la scrivono. Pare amor pago, e non lo è».[1]
Vorrei concludere le mie osservazioni rammentando che le lingue passano, ma resta la profondità delle riflessioni che da esse scaturiscono. Gli autori d’Arbëria hanno colto, spesso a proprie spese, l’essenza stessa della vita che, in fin dei conti, trascorre beffarda concedendo minimi sprazzi di bellezza.
Vissuti in condizioni di disagio e ristrettezze, alcuni di questi scrittori hanno racchiuso in versi toccanti la logica universale. Raffinatissimo, in tal senso, fu Santori che ne Il canzoniere albanese[2] scrisse: «Il mondo è stato sempre / gioia e dolore e lutto / per ognuno. // C’è chi piange e chi canta, / c’è chi ride e chi danza, / e c’è chi invoca la felicità / che annoia chi l’ha già».
Gli fecero eco due altrettanto validi poeti arbëreshë che non appartengono alla presente antologia, ma che è bene rievocare: il primo, Antonio Scura (1872-1928), originario di Vaccarizzo Albanese, nella sua lirica intitolata Empietà lamentò: «La vita è agon di triboli, / vi è il vinto e il vincitor: / nell’oro alcuni guazzano, / v’è chi di fame muor. // Sorride ad un propizia / fortuna e dà ogni ben, / altri è dannato a pascersi / di fiele e di velen»; il secondo, Salvatore Braile (1872-1960), ch’ebbe natali in San Demetrio Corone, fu ancor più incisivo, ammonendoci in questi termini: «Kështu ësht jeta, oj bir: / moti keq dhe moti mir. / Kush këndon dhe kush valton, / kush bekon, dhe kush mallkon» (Così è la vita, o figlio: / tempo cattivo e tempo buono. / Chi canta e chi manda gemiti, / chi benedice e chi bestemmia).
Insomma, siam dinanzi a poeti d’altri tempi, che si espressero in un idioma antico, ma paradossalmente seppero ‒ per mezzo dei loro versi ‒ parlare la lingua del futuro.
Ettore Marino ci regala uno squarcio di luce su questo mondo di parole e poesia, consegnandoci una lodevole antologia la cui gradevole lettura è, senza dubbio alcuno, costruttiva attività per il presente e valido investimento per il nostro futuro.
[1] Ettore Marino, Vivrà ancora la lingua degli Arbëreshë?, in Id., Un quadrifoglio, verde tra le spine, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2022, p. 140.
[2] In base ad una condivisibile congettura di papàs Francesco Solano (1914-1999), Il canzoniere albanese del Santori sarebbe stato pubblicato in prima edizione tra il 1846 e il 1847.