Esperimento
di
Ettore Marino
Scrisse molto placidamente Michel de Montaigne (III, 13) che la parola appartiene per una metà a chi parla e per l’altra a chi ascolta. Placida è invero solo la formulazione, ché quanto ai baratri che il concetto vela, e velando discopre, noti erano a Montaigne, noti sono a chiunque vi cada o solo vi s’immerga un poco. Il ponte tra chi parla e chi ascolta può essere infatti ampio, grato, solido per pietrame e per malta ignari d’incertezze; ma può essere anche una sparuta passerella di corda vecchia e di fragili aste; e può essere infine il simulacro d’un ponte in malta e pietre: un simulacro in cartapesta, che inghiotte la parola rovinando con lei nell’abisso.
Voglio occuparmi oggi di un poeta latino noto solo agli esperti: un poeta di quelli che ogni liceale dimentica a fine quadrimestre, o forse addirittura già tornando al banco appena dopo averne conferito. Proporrò mie antiche traduzioni di alcuni suoi frammenti, e le farò precedere da una secchissima nota introduttiva.
L’esperimento del titolo consisterà in quel che segue: di settimana in settimana, chiederò a Mario Gaudio, pilota della digitale gazzetta che gentilmente mi ospita, quanti mai siano stati i lettori del pezzo. Ci si intenda assai chiaro: che altri sia o non sia interessato ai versi di Cecilio Stazio (è il poeta in questione), nulla m’importa: un’anima fragrante che sia ignara di lui non perderà il profumo, un eventuale stronzo che tutto ne sapesse non perderebbe perciò il suo fetore – e va da sé che fetido potrebbe essere l’ignaro o soavemente puro l’edotto.
Il ponte tra chi ha scritto e chi legga è problematico forse ancora più di quello che dovrebbe legare chi parla a chi ascolti. Mai ho indagato il numero dei miei lettori. Ma questa volta, ripeto, lo farò. Ho scelto apposta un argomento peregrino. Curiosità pura e vana, questa mia: il giorno in cui avrò saputo il misterioso numero sarà, sicuramente e in tutto, un giorno simile a ogni altro.
Cecilio Stazio, dunque: gallo ìnsubre per certo, schiavo poi liberato a quanto si ipotizza. Scrisse solo commedie, forse tutte palliate, cioè di ambientazione ellenica, e traghettate spesso, per ciò che riguarda gli intrecci, dal greco di Menandro.
Figura assai simpatica. Simpatici, intendo, i suoi versi. Pochissimi ce ne sono giunti, e quei pochi divertono molto, o enunciano, gravi, belle verità.
Visse più o meno dal 230 al 168.
Mia, con banale evidenza, la numerazione dei brani tradotti.
1 Che bello, quando sei innamorato / cotto, e non hai un soldo, avere un padre / spilorcio, rompiscatole, che né / ti ama né di te si cura. Bello / è ritoccargli il reddito, soffiargli / quanto più puoi con lettere di credito / truccate, o fargli dare uno spavento / da un servo che lo batta. Bello è spendere / tutto, se l’hai spillato a un padre avaro. […] Ma il padre mio, come lo inganno? cosa / gli rubo? quale trucco, quale macchina / metterò in moto a danno suo? Mio padre / è buono, e questa sua condiscendenza / trappole trucchi inganni imbrogli intrappola.
2 – “Rompe, tua moglie?” – “E me lo chiedi?” – “Come?” / – “Non mi parlare più di lei. Ritorno / a casa, e subito mi bacia, ancora / digiuna.” – “Tutto qui? Cerca soltanto / di farti vomitar quel che hai bevuto.”
3 Se conosce il suo compito, l’uomo per l’uomo è un dio.
4 Sovente la saggezza si cela sotto un mantelluccio sordido.
5 Bene è piantare alberi che gioveranno a chi dopo verrà.
Quest’ultimo verso enuncia invero un fatto: Serit arbores, quae saeclo prosint alteri. Credo però di non aver tradito la volontà del poeta rendendo esplicito il valore che l’enunciato racchiude.