In margine alla trilogia “Il cammino degli Eletti”
di
Mario Gaudio
Prima di entrare nel merito della trilogia Il cammino degli Eletti a cui dedicheremo le nostre riflessioni, vorrei spendere qualche parola sul ruolo e sulla funzione dello scrittore che decide di cimentarsi nella sfida della letteratura fantastica.
Per far questo, consentitemi di ricorrere ad un aneddoto storico risalente al periodo della Seconda guerra mondiale. Mentre gli eserciti si fronteggiavano sui campi di battaglia e immani carneficine facevano sprofondare l’umanità negli abissi più oscuri della barbarie, un gruppo di esperti di diverse discipline tentava di risolvere, su ordine del comando britannico, un gravoso problema tecnico: occorreva rendere gli aerei alleati meno vulnerabili senza tuttavia appesantirli eccessivamente.
Gli studiosi esaminarono con accortezza i velivoli ritornati alla base, censendo scrupolosamente quelle parti danneggiate dai colpi della contraerea tedesca e notando la frequenza con cui determinate porzioni meccaniche venivano bersagliate. Ne dedussero un modello statistico-matematico secondo cui programmare i necessari lavori di rinforzo.
Quantunque la logica seguita dagli scienziati fosse inappuntabile, una voce fuori dal coro ribaltò il ragionamento, mostrando come, spesso e volentieri, l’evidenza costituisce una distrazione nella ricerca delle soluzioni alle problematiche più complesse.
Certamente visionario, sicuramente lungimirante, il matematico ungherese Abraham Wald (1902-1950) ammonì i suoi colleghi, facendo notare come le parti colpite dalle artiglierie germaniche, benché danneggiate, fossero le più resistenti, in quanto avevano consentito il rientro dei velivoli nelle rispettive basi. Era fondamentale pertanto capovolgere il punto di vista e focalizzare l’attenzione sulle componenti intatte degli aerei superstiti che, a rigor di logica, dovevano essere considerate le più fragili nei mezzi abbattuti e dunque le più bisognose di una corazzatura.[1]
Wald risolse la questione ponendosi su una prospettiva diversa in relazione agli altri studiosi e attuando uno scarto rispetto alla linearità del reale e del comune sentire.
Alla stessa maniera del versatile matematico magiaro, lo scrittore che si occupa di letteratura del fantastico oltrepassa, per natura e tradizione, i limiti di un discorso reale e veritiero, ricercando in una dimensione insolita le risposte ‒ e forse anche le domande ‒ attraverso cui stimolare l’attenzione e la riflessione del lettore e ammantare di inequivocabile fascino la struttura narrativa.
Ilina Sancineti compie felicemente questo percorso e imprime alla sua trilogia le inconfondibili stimmate della scrittura fantastica, associandovi tuttavia una attenta e riuscita ricostruzione storica delle ambientazioni medievali e moderne e plasmando ‒ di conseguenza ‒ un gradevole microcosmo in cui si avvertono la freschezza della creazione ex nihilo e la fatica della certosina ricerca bibliografica su usi e costumi del passato.
Una simile operazione implica innanzitutto un confronto con il tempo che, a ben vedere, è il vero protagonista palese ed occulto dell’intera trilogia.
Le vicende raccontate spaziano nell’arco di un millennio e l’autrice fa ricorso ad un classico escamotage che le consente di ricollegare storie e destini di esseri antichi e dei loro discendenti.
Violando le leggi universali e sfidando i paradossi, i personaggi viaggiano a ritroso sulla linea temporale, incontrando i loro antenati e interagendo con essi per evitare catastrofiche conseguenze sul futuro.
La letteratura fantastica abbonda di viatores che ripercorrono a ritroso i secoli ‒ cito in proposito opere quali Gli antenati di Kalimeros del russo Aleksander Veltman (1836), Un americano alla corte di re Artù di Mark Twain (1889) e L’orologio che andava all’indietro dello statunitense Edward Page Mitchell (1881) ‒, ma la trilogia della Sancineti associa a questo viaggio desiderabile, enigmatico ed impossibile un percorso di catarsi che consentirà a Logan e Layamon di purificarsi dalle scorie di una arcana e terribile maledizione e permetterà al giovane Marcus Mèvelo di scoprire la sua vera identità.
Tutto ha inizio nel Medioevo e l’autrice, libera da stereotipi, descrive tale epoca in maniera chiaroscurale ‒ caravaggesca, qualora volessimo fare un raffronto con la storia dell’arte ‒, mettendo in risalto i contrasti di quella che può considerarsi una delle ère più affascinanti della storia umana.
Il Medioevo della Sancineti è il profumo dell’incenso mescolato al cattivo odore dello zolfo, il soave riverbero delle candele che fa da contraltare al sinistro bagliore dei roghi, l’armonia del canto gregoriano che si fa spazio tra le avvinazzate strofe di taverna, la maestosità delle cattedrali che fa ombra ai tuguri del popolo, il candore verginale dei monasteri che stride con la corruzione e il vizio dei vicoli e delle piazze.
In questo contesto di grandi contraddizioni nascono e si consumano passioni e vendette che si intrecciano coinvolgendo destini umani e alimentando il doloroso conflitto tra la luce e il buio, metafora dell’eterna ed universale lotta tra Bene e Male.
Al di là del tempo, o forse proprio grazie ad esso, i sentimenti vivono e si rafforzano e l’autrice coglie l’occasione per declinare il tema dell’amore in tutte le sue sfaccettature: il tenero affetto familiare che lega il vecchio nonno Antonio a Laura è accostato alla passione tra quest’ultima e Layamon, mentre una cavalleresca liaison unisce, a discapito dei secoli, Logan e Phillis. Lo stesso Rufus, divenuto a causa del maleficio la temibile Sentinella Bianca, conserva pietosamente nel suo cuore il ricordo della giovane moglie e del nascituro che la donna portava in grembo.
Tuttavia, se il sentimento magnificato da santi e poeti sfida incolume il corso del tempo, il suo opposto ‒ l’odio ‒ non è da meno e trova nell’inquisitore Achille Portos e nel diretto discendente padre Grey gli scellerati campioni della vendetta e della deviazione dal messaggio evangelico della carità.
A render più avvincente la trilogia è il ricorso alla tematica della magia che se da un lato concede ai personaggi la facoltà di forzare le leggi di natura e violare i normali meccanismi dell’ordine cosmico, dall’altro induce i lettori più attenti a collegare idealmente l’opera della Sancineti al filone letterario al quale appartengono tanto Il Signore degli anelli di John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) quanto la saga del celeberrimo maghetto occhialuto Harry Potter della scrittrice inglese J. K. Rowling.
È bene comunque precisare che i modelli culturali di riferimento della nostra autrice non si limitano ai nomi appena citati: il monastero di Fra’ Elia, il silenzio e l’umbratile esistenza claustrale richiamano preziosi passi de Il nome della rosa (1980) del compianto Umberto Eco (1932-2016), così come il ruolo di primaria importanza attribuito nella narrazione ai libri e alle biblioteche rammenta i misteriosi e ammalianti mondi di carta costruiti dallo scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986).
«Tu ne cede malis» ammoniva il sapiente Virgilio nel VI libro dell’Eneide (VI,95) e Ilina Sancineti accoglie questa lezione ripudiando l’autoreferenzialità della scrittura e preferendo al vacuo sfoggio retorico il fluire schietto e lineare della narrazione finalizzata a costruire diverse microstorie che, nel loro insieme, costituiscono il grembo capace di generare l’unica e vera storia degna di nota: quella di Marcus Mèvelo, ultimo discendente del nobile casato medievale.
L’architettura stessa della trilogia risente di questo modus operandi: le traversie di Layamon, Logan, Laura e compagni, sebbene suggestive, si configurano come semplici accordi che accompagnano la melodia principale del destino del valoroso e sofferente soldato americano.
Se è lecito azzardare un paragone artistico, l’intera opera è costruita alla maniera del michelangiolesco Giudizio Universale (1536-1541): le storie collaterali dei personaggi vicini e lontani nel sangue e nelle epoche contornano nella trilogia l’imponente presenza del Depositario del Tempo, così come nel grandioso affresco di Michelangelo (1475-1564) le innumerevoli raffigurazioni di salvati e dannati fanno da magnifica corona alla maestosa effigie del Cristo Giudice verso cui tutto tende e da cui tutto ha avuto origine.
Un ulteriore approfondimento interpretativo ci consente di intravedere in filigrana una perfetta circolarità che avviluppa l’intera trilogia: tutto ha inizio in una biblioteca e tutto in essa si conclude, dando al lettore l’impressione che le burrascose vicende narrate siano state soltanto il fugace sogno di una notte o suggerendo inevitabili similitudini con l’avventuroso viaggio di Ulisse, l’eroe omerico che, partito dalla sua «petrosa Itaca», dopo due lunghissimi decenni di peripezie, vi fece rientro carico d’anni e d’esperienze, chiudendo idealmente il cerchio di un’esistenza che, per quanto fuori dall’ordinario, si risolse in un ritorno alle origini.
Nonostante la centralità indiscussa di Marcus Mèvelo, i personaggi principali nati dalla penna di Ilina Sancineti possiedono uno spessore umano in grado di renderli vivi e veri in un mondo ‒ quello della letteratura fantastica ‒ che, per definizione, si evolve autonomamente e spesso in contrasto con gli stessi concetti di vita e verità.
Una nota a parte merita la figura di Artemisia, seducente maga dalla pelle ambrata che condensa nella sua dolorosa vicenda gli spunti di una sorta di femminismo ante litteram che, benché solamente abbozzato, risulta efficace in quanto non ideologizzato e frutto di una genuina rivolta interiore. Promessa sposa ad un vecchio notabile, l’affascinante giovinetta rifiuta l’imposizione del pater familias fuggendo di casa in un primo momento, evadendo da un convento di benedettine in una seconda fase e abbandonandosi infine alla vita raminga tra i boschi.
L’acerbo ma significativo gesto di Artemisia nasce da un innato coraggio che rompe le trame di un futuro destino costruito forzatamente sulle pretese paterne e rende la fanciulla ribelle l’esatto opposto della manzoniana Gertrude che, incapace di insubordinazione, cede alla coercizione del potente casato d’appartenenza seppellendosi nella clausura del monastero di Monza, salvo poi trasgredirla dinanzi alle ripetute avance dello scapestrato Egidio.
Il raffinatissimo Oscar Wilde (1854-1900) così sentenziava lapidario nella prefazione de Il ritratto di Dorian Gray (1890): «I libri sono o scritti bene o scritti male: nient’altro». Nessun dubbio sul fatto che la trilogia Il cammino degli Eletti sia opera di valore a cui il tempo, assassino e galantuomo, assegnerà il giusto riconoscimento.
Ilina Sancineti è un’autrice giovane, ma che ha deciso di non rimanere sulle mura della rocca per assistere inerte allo spettacolo della lotta del mondo. Ha invece deliberato di schierarsi in prima linea e di ingaggiare la difficile battaglia contro la pagina bianca, dando corpo alle sue idee attraverso tratti di inchiostro e di passione.
A conclusione di queste mie brevi riflessioni, rivolgo a lei e a quanti decidono di intraprendere il tortuoso cammino della scrittura l’auspicio racchiuso in alcuni delicati versi di Ivan Franko (1856-1916), una delle voci poetiche più rappresentative del martoriato popolo ucraìno: «Vivrò, perché voglio vivere! / Senza lesinare le fatiche, né il sudore, / nella causa, che la nostra età vuol realizzare, / troverò il mio quieto lavoro».[2]
[1] Per ulteriori informazioni sulla vicenda dell’intuizione di Abraham Wald vedi Jordan Ellenberg, How Not To Be Wrong. The Power of Mathematical Thinking, New York, Penguin, 2014.
[2] Luigia Sorrentino, Ivan Franko, “un arciere in agguato”, 22.03.2022, in www.luigiasorrentino.it [Consultazione del 17/07/2022].