L’attesa e il piacere
di
Mario Gaudio
L’attesa è, a ben vedere, la cifra comune delle nostre vite. Essa è radicata a tal punto nelle esistenze umane da poter essere accostata addirittura alla paura, la più ancestrale delle emozioni, che a conti fatti non è altro che l’attesa amplificata di un ignoto evento che potrebbe o non potrebbe verificarsi e che, nell’incertezza, attiva meccanismi istintuali di sopravvivenza.
Sándor Márai (1900-1989), poco valorizzato autore della narrativa mitteleuropea del Novecento, costruisce Le braci proprio sul concetto di attesa, incentrando l’intero romanzo su un incontro tra due personaggi il cui tempo è stato scandito esclusivamente in funzione di un agognato momento chiarificatore al quale non possono sfuggire e che rappresenta il senso e il culmine del loro vissuto terreno.
Tutto ciò genera una inevitabile tensione che si concretizza stilisticamente in una suspense che connota i capitoli iniziali del libro e si attenua soltanto all’arrivo di un misterioso ospite presso il castello ai piedi dei Carpazi in cui si svolgono le vicende.
Il vecchio generale ‒ il cui nome, Henrik, sarà svelato dall’autore soltanto dopo trentanove intense pagine ‒ e l’altrettanto attempato capitano ‒ Konrad ‒ si ritroveranno a dover fare i conti con un passato in cui un’amicizia fraterna, spezzatasi senza apparente motivo, ha devastato storie e memorie, costringendo i due a rintanarsi in un esilio dello spirito in grado di custodire un unico e doloroso segreto.
La gioventù trascorsa in una Vienna imperiale e cosmopolita, dai tratti spensierati e ignara di un imminente declino, è per i due militari il lontano ricordo di un’armonia irrimediabilmente perduta che ha dato l’abbrivio ad un velenoso quanto insospettabile processo di allontanamento covato tra una sonata di Chopin, una battuta di caccia e gli ipnotici occhi di una donna ormai divenuta polvere come il diario tra le cui pagine è racchiusa un’amara confessione.
Ciononostante, nel momento supremo del confronto, quasi a voler beffare il destino e il lettore, Henrik sceglie di dare in pasto al fuoco la verità, incenerendo di fatto quarantuno anni di indugio e abbandonando alle braci, reali e metaforiche, le pagine vergate da una mano ormai consunta dall’atroce lavorìo della morte.
Quest’ultima azione sembra far calare il sipario su una trama sostanzialmente dominata da un lungo e penetrante monologo, rendendo quasi vana l’attesa ‒ questa volta di chi legge ‒ di un epilogo che possa giustificare un racconto iniziato e terminato nell’arco di una manciata di ore. Tuttavia, con la sottile e felice arte dei grandi scrittori, Márai racchiude il senso dell’intera narrazione in poche ma significative righe disposte insospettabilmente all’inizio del romanzo (capitolo III) in cui è contenuta la chiave di lettura dell’opera e la sua idea sulla vita umana paragonata a «una specie di cerimonia disperata, di festa tragica e solenne, a conclusione della quale i trombettieri avrebbero fatto squillare i loro strumenti per annunciare ai partecipanti storditi un decreto infausto».
Il romanzo termina dunque in un’atmosfera di sospensione alla quale, in virtù del caos interno ed esterno che ci caratterizza in quanto uomini postmoderni, non siamo più abituati ma, con buona probabilità, questa dose di incertezza è salutare e giocoforza richiama alla mente un vecchio e abusato aforisma del filosofo tedesco Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) con cui si concluderanno queste brevi note: «L’attesa del piacere è essa stessa il piacere».