La zavorra del vecchio incantatore. Prima parte
di
Ettore Marino
Gianni Brera: ho amici che lo odiavano. Me ne stupivo, ne indagavo il perché, io che per lui tifavo, che sempre grato ne gusterò la pagina e il roco parlare. È forse giunta l’ora di mettere un po’ d’ordine, di traghettare nella chiarezza del concetto sensazioni e sussulti, piccose rabbie e abbandoni gioiosi.
Gioânn Brera fu Carlo si offriva, si cantava, si cullava lombardo. Ogni Io che si presenti al mondo sotto l’usbergo di un Noi desta sovente irritazione presso chi sotto quell’usbergo non potrà mai trovare asilo. Gli amici che lo odiavano erano sardi, italomeridionali o fiorentini. Il rude Gianni non amava Antognoni e aveva in uggia Bartali, figure nelle quali la Firenze tifosa s’ingloriava. Se qui null’altro occorre aggiungere, l’antibrerismo dei sardi e dei meridionali impone indagini serissime che metteranno capo a semiserie conclusioni. I popoli che più o meno giustamente si credono posti al margine dal moto delle cose, o peggio ancora dall’altrui malvolere, sogliono consolarsi dicendosi dotati delle virtù più elette e, quando ostendono le pur reali e numerose beltà della terra e dell’anima loro, lo fanno con un malanimo tale, che corrompe ogni volta l’ostensione stessa. Ora, agli occhi dei sardi e dei meridionali (s’intende che generalizzo?) il dovizioso Settentrione è il fortunato da invidiare, e a chi vi nacque consentito non è di picchiare sulla grancassa etnocontradaiola. La Lombardia di Brera, assai più vasta di quella amministrativa, era un luogo carnoso, fatto di terra e d’acqua; corpo di madre era, respiro di fratelli. A lei portava un amore innervato d’orgoglio plebeo, che a volte si screziava di risentimento. Puntuale è l’ansia del cosiddetto terrone alla vista di un conterraneo che abbia soggiornato lungamente al Nord. “Si crederà migliore di noi rimasti qui?”, si domanda in un brivido osceno che ancor più oscenamente placa ricordando al presunto transfuga le origini comuni. Ebbene, Brera, quando parlava di Michel Platini, soleva additarne, con lieta malagrazia, le radici pedemontane. Candido Cannavò non si spiegava la giannibrèrica mania di cercare antenati lombardi in chiunque gli stesse simpatico. Lungo i rami di popoli e patrie, Gianni s’arrampicava infatti in cerca della madre e della verità: la madre è però amore, e la verità gelo. Ritraghettare Platini in Italia era rimpiccinirlo, lombardizzare chi lombardo fosse in parte o per niente, era dargli corona. Un esempio su tutti. Angelo Schiavio fu un poderoso centravanti degli anni Venti e Trenta. Era nato a Bologna nel 1905, militò nel Bologna, a Bologna morì. Brera ne attribuisce le virtù al sangue bergamasco che gli avrebbe irrorato le vene. L’éthnos spiegava tante, spiegava troppe cose; e quando non bastava, altri nessi di causa spianavano colli e raddrizzavano strade rattorte: la dieta alimentare, ad esempio; oppure il clima. In un’intervista televisiva di fine anni Ottanta sentenziò essere impossibile che la Sampdoria vincesse un Campionato poiché lo scirocco, perenne ospite del capoluogo ligure, ti fa sudare e ghiaccia nel giro di una notte. Pure, i blucerchiati si sarebbero laureati campioni da lì a non molto, né il malandrino vento aveva impedito al Genoa la conquista di nove Scudetti. Climi, diete, culture, tipologie anatomiche, cromosomismi d’ogni sorta… Tutto ciò Brera coagulò in una pasta filamentosa pronta all’uso ogni volta, in cui l’arbitrarietà dei nessi copulava in letizia sia con la fissità di alcuni diktat concettuali sia coi sussulti dell’umore. Ciò era Scienza, per lui: ed è invece zavorra: la zavorra del titolo. Qui mi chiedo però: ne fosse stato privo, avrebbe il suo naviglio avuto il medesimo assetto? avrebbe goduto dello stesso equilibrio? Non lo sapremo mai, né ce lo chiederemo più.
Come ogni dominio complesso, il Calcio è interpretabile in più modi, e Brera aveva il suo. Leggeva ogni partita con occhio pronto e certo. Che la leggesse altrimenti da noi, nulla rileva. Sbagliò fior di pronostici, s’incaponì a raggrinzire grandezze che gli erano indigeste, ma, bastian contrario di buonsenso, attraversò l’atto sportivo con acribia gagliarda, con tumulto di cuore, con raziocinio che scremava da sé i giubili e i gravami della zavorra. Soprattutto, l’atto sportivo restituiva alla pagina ora con eloquenza rustica, ora con grazia arciducale, e mai con leziosaggine, e mai con sciatteria. Giungeva a ridere di sé, e un poco pure della sua pretesa Scienza. Ripercorrendo i Mondiali del ’70, e segnatamente il suo erroneo pronostico circa la finale, ebbe a scrivere infatti: “Su allegri. E dire che mi aiutano i manuali di etnologia e di psicologia razziale ad essere ottimista per la finalissima. Quali errori commetto per mera presunzione euro-nazionalistica. Sono quasi tutti negri, mi dico dei brasiliani: vuoi mettere il nerbo dei nostri punteros lombardi […]?! I negri brasiliani sono animule delicate, gente capace di danzare su un francobollo ma poco portata a lottare: e come si emozionano, poverini; come temono gli scarponi puntuti dei colleghi europei!”[1] Per chi non lo sapesse, nella partita in argomento il Brasile spappolò l’Italia per quattro reti a una.
CONTINUA…
[1] Cfr. Storia critica del Calcio italiano, Rusconi, 2022, pp. 345-346.