23 Dicembre 2024
Letteratura

La zavorra del vecchio incantatore. Seconda parte

di

Ettore Marino

Inzavorrato o meno, fu Brera uno scrittore autentico, cioè un autore trionfante ogni volta sull’ottusa riluttanza del prius. Gli bastava uno sbuffo per uccellare un episodio, un modo d’essere, un destino: a non so più quale minuto del primo tempo della finale dei Mondiali dell’82, all’Italia è concesso un rigore: “Viene avanti Cabrini e arroncigliando il sinistro come fosse una falce fienaia butta malamente fuori”[1]; durante l’incontro tra Inghilterra e Italia del 14 Novembre 1973, “Chinaglia conferma il proprio buon sangue arretrando a dar piè forte”[2];  il tedesco occidentale Morlok, protagonista nella finale dei Mondiali del ’54, è “un centravanti che pareva scolpito in un tronco di abete”[3]; Carlo Mattrel, che pure difendeva bene i legni juventini tra la fine degli anni Cinquanta e la metà del decennio successivo, “ha molli gambotte da sposa”[4]. Lo sbuffo a volte si rapprende in un nomignolo. Brera ne cesellò tantissimi, degni pressoché tutti di memoria, uno almeno degno d’eternità: “Accaccone”. Lettore, hai mai visto sorridere Helenio Herrera? lo hai sentito parlare – e cioè autoelogiarsi? riesci a immaginare l’italiano di un argentino che nella natia Buenos Aires abbia trascorso solo i primi anni di vita e i decenni seguenti tra l’infranciosato Marocco e la Francia stessa? La magia di un nomignolo, stimolata dall’acca delle iniziali, riassume tutto questo; e il nomignolo, ripeto, è “Accaccone”. Ciò che attornia l’atto sportivo poteva diventare plastico svelamento. Mai visitai Città del Messico, ma la greve sua aria respirai per davvero leggendo quanto segue: “La metropoli è spropositata come gli umori dei mestizos che la abitano o che la vorrebbero abitare. Dice che intorno all’immane agglomerato civico siano accampate da cinque a sei milioni di persone che aspettano vivendo alla meno peggio di insediarsi in città. E poiché non esistono servizi igienici di sorta, gli escrementi di questi desesperados vengono ben presto polverizzati dal sole a picco e poi dispersi dal vento nell’atmosfera. Ne consegue che lo smog dal quale è afflitta la capitale del Messico è del tutto particolare: in altre parti del mondo si incontrano coli-batteri nelle acque destinate alla balneazione: qui i coli-batteri si respirano addirittura!”[5] Quando può e quando deve, la pagina si fa poesia: aggressione, cioè, delle cose, restituzione delle stesse a un più alto più forte più puro stato di verità e di vita. Tour de France del 1949. La tappa chiude a Saint-Malo. Si corre sotto un sole atroce, Coppi rovina a terra, la bici è un groviglio di ferrami, Fausto aspetta soccorsi che spera non giungano, tentato com’è di ritirarsi – e Brera scrive: “Ha perduto dieci minuti. Gli è sbollita dentro ogni energia. L’aria si infuoca sull’asfalto e si fa liquida ai suoi occhi di allucinato. Intorno è un gran baluginare di immagini matte. La voce del vigliacco che pure abita in lui (molti inquilini ha pure da avere il nostro corpo) sussurra consigli cui fatica molto a resistere.”[6] Giro d’Italia del ’53. Si affronta un ignoto gigante. “Che grande, che orribile montagna è lo Stelvio. La strada si attacca ai suoi poderosi bastioni rigandoli di scalinate ripide e ossessive. Un ghiacciaio verde-livido come il moccico di un bambino povero lampeggia sinistro al sole. Neve sporca chiazza i costoni più bassi come una lebbra. Gente con gli sci assiste vociando ai ciclisti che per la prima volta affrontano il mostro.”[7]

Scrisse romanzi, Gianni Brera. Non li ho letti. Arricchì l’italiano dotando il lessico calcistico di voci di suo conio. Amava il cibo e il vino, il tabacco e la caccia. Lo rapì al Sole un incidente d’auto.

Ammirato della di lui scrittura, Giampaolo Ormezzano ebbe a notare che bastava leggere le prime cinque righe di un suo articolo per essere certi che fosse di Brera, laddove ai giornalisti venuti dopo occorre apporre il proprio nome a quanto sfornano perché se ne distingua la paternità. Verità vera e triste. A Brera fu dato di essere sé stesso: secondo personale dignità, con grazia di dettato e a gioia e ricchezza del lettore. Avesse tentato di esprimersi oggi, la catena di montaggio editoriale, per opera della parassitaria colonia dei revisori, ne avrebbe soffocato l’estro, ingrigito le crome, plastificato la grana sonora, impoltigliato muscolatura e tendini, rendendolo uguale all’uguale.

Vorrei chiudere qui, ma non posso. Una questione assai spinosa mi forza ad annoiare il lettore ancora un poco. A un giovane Gianni Minà che (pregustando lo sdegno?) quasi tenta, in un’antica intervista televisiva, di fargli dir male di Napoli, sornione quanto saggio l’incantatore risponde che Napoli coltiva il malo vezzo di autoillustrarsi come una cartolina; a un cuoco che elogiava la cucina mediterranea oppose la propria estraneità al Mediterraneo stesso; soprattutto, nel brano da noi sopra citato chiamò più volte negri i calciatori brasiliani. Un brontolio baritonale e un trillo da soprano s’intrecciano nell’aria formulando l’accusa a mo’ di domanda che sottintenda la risposta: “Era forse razzista?!?” La voce, quella di un sacerdote e quella di una maestrina del politicamente acconcio. Lecita la domanda, vomitevole la voluttà con cui è sempre formulata. Il politically correct è infatti una carie che baca col garrulo suo tono i nobili ideali di cui si finge scudo. Rispondo che, pur se a volte piccoso, l’amore che Brera portava alla sua terra può ferire chi solo scenograficamente ami la propria; che, da meridionale, ho in uggia anch’io il sempiterno piagnisteo della mia gente; che detto piagnisteo si rasserena troppo spesso presso i napoletani in una laccata e leccata cartolina; che la generazione cui appartengo (sono nato nel 1966), seguendo per TV lo sceneggiato Radici, versò lacrime d’impotente dolore sul destino degli africani catturati e ridotti in servitù. Ognuno di noi li sentiva fratelli, e ognuno di noi li chiamava negri (ripeto, negri!) perché, semplicemente, la parola, in quei giorni, era innocente e vergine. A ridosso del mondo del Calcio la spocchia esulcerante sarebbe cresciuta, come catodica gramigna, in modi e tempi per nulla breriani. In margine al gioco più bello del mondo presero infatti corpo pretensiosi spettacoli dei quali mi son noti Quelli che il Calcio e Mai dire gol, furbescamente garbati collettori di reflussi esofagei che ecumenicamente incantarono e forse ancora incantano (non guardo la TV da un pezzo…) stuoli e stuoli di idioti d’ogni italica etnia. Con ciò, chiudo davvero!

[1] Cfr. La Leggenda dei Mondiali e Il Mestiere del Calciatore, Baldini e Castoldi, 1994, p. 89.

[2] Cfr. Storia critica del Calcio italiano, Rusconi, 2022, p. 376.

[3] Cfr. La Leggenda cit., p. 46.

[4] Cfr. Storia critica cit., p. 250.

[5] Cfr. La leggenda cit., p. 92.

[6] Cfr. Coppi e il diavolo, Baldini e Castoldi, 1996, p. 94.

[7] Cfr. Coppi cit., p. 108.