Elogio (spudorato) di Jep Gambardella
di
Mario Gaudio
In una Roma sospesa tra l’afa e la gloriosa storia millenaria ‒ prezioso museo a cielo aperto di cui, spesso, l’italiano medio si rende indegno con la sua indifferenza ‒, si consuma la vicenda esistenziale ed artistica di Jep Gambardella, magistrale protagonista de La grande bellezza, testo di Paolo Sorrentino e Umberto Contarello divenuto, ben presto, pellicola insignita di premio Oscar nell’ormai lontano 2014.
Nei suoi inappuntabili completi di lino, Jep, autoincoronatosi ‒ a ragione ‒ «re dei mondani», è figura quasi mitologica nell’ambito del mondo festaiolo dell’Urbe.
Occhi acquosi a causa del gin tonic, sigaretta tra le labbra e battuta tagliente sempre a portata di mano, egli sconta il dolore dell’esistere trincerandosi dietro un cinismo che, all’alba dei sessantacinque anni, inizia a vacillare, manifestando crepe che si trasformeranno gradualmente in domande a cui il vanesio cardinale Bellucci ‒ un tempo rinomato esorcista e, al presente, monotematico esperto di arte culinaria ‒ non saprà rispondere.
Neppure la vegliarda suor Maria, alias “La Santa”, benché carica di anni, esperienza e carità evangelica, riuscirà a placare l’inedita sete spirituale di Jep che, al termine di tutto, si lascerà logorare dal suo stesso personaggio, offrendoci una riflessione spietata sulla vita a cui nessun uomo di buon senso oserebbe opporre argomento contrario. Nella totale disillusione, Jep ci regala un monologo finale dai toni crescenti che ben sintetizza la parabola di una realtà apparentemente eccezionale ma, in fin dei conti, identica a tutte le altre: «Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. […] Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco».
Da moderno dandy a pensatore decadente, il percorso di Jep è costellato da legami verso una variegata società che si ritrova puntualmente sul suo terrazzo ‒ che abbraccia Roma e ne assorbe le tendenze più stravaganti ‒ a festeggiare un vuoto che accomuna e che ‒ per puro paradosso ‒ è celebrato come vincolo in grado di unire animi altrimenti destinati ad una non meglio identificata perdizione. Ecco sfilare tra le pagine una ossimorica fauna umana da cui spiccano figure particolari quali il facondo Lello Cava, insuperabile venditore, l’ingorda Trumeau, generosa amica di ogni forma di cibo, la simpatica Dadina, affetta da nanismo e da rassegnata saggezza («Io mi sento tutti i giorni una bambina. Da sessant’anni, ho il privilegio di guardare il mondo dalla loro altezza»), lo scontento Romano, perennemente afflitto da velleità artistiche e tenace corteggiatore non ricambiato, l’ipercritica Stefania (dai tratti radical chic e dalla quotidianità devastata) e il bizzarro poeta Sebastiano Paf che, presenza diafana, partecipa alla mondanità capitolina limitandosi ad ascoltare e imponendosi di non proferire parola alcuna.
Tra tanta vacuità adornata di lustrini, ricamata di parole e rallegrata da alcol e pettegolezzi, Jep appare l’unico personaggio vero a cui il destino ha impedito di diventare un grande scrittore gravandolo di una insospettabile ‒ e paradossale ‒ eccessiva sensibilità che egli tenterà di soffocare nella baldoria romana.
Autore di un lodatissimo romanzo intitolato L’apparato umano, Gambardella smetterà la scrittura letteraria pur dedicandosi per professione al giornalismo. Sfuggente ad ogni domanda relativa a questa inaspettata scelta, si ritroverà a nudare il proprio animo solo dinanzi alla Santa, confessandole con innocenza fanciullesca la causa dell’improvviso disimpegno: «Cercavo la grande bellezza, ma non l’ho mai trovata».
Afflitto dalla malinconia per un perduto amore giovanile, Jep diviene sintesi perfetta di un cinismo difensivo dietro cui la fragilità si corazza, mostrando una forza più agognata che reale e reprimendo lacrime prontamente tramutate in parole puntute a mo’ di spilli capaci di conficcarsi nelle carni del malcapitato interlocutore.
Gambardella è umano, troppo umano, ed è forse per questo che merita uno spudorato elogio.